Antonio Marchetti disegna, progetta, realizza in ferro, lamiera, e terracotta una serie di “quasi” utensili – e nell’avverbio “quasi” è espressa sia la distanza esistente fra i suoi utensili “quasi” e gli utensili veri, sia la loro specifica essenza. Non so se siano effettivamente funzionali; ma mi sembra che potrebbero benissimo esserlo: né la loro conformazione né i materiali di cui sono fatti contraddice veramente la loro funzione eventuale. E tuttavia restano senza dubbio dei “quasi” utensili per il fatto che in loro l’aspetto esterno si presenta di gran lunga più importante della funzione.
Ci troviamo di fronte a degli oggetti-personaggio di taglia gigantesca – anche nei disegni di piccolo formato le dimensioni si mostrano sempre al di sopra della norma – cresciuti in maniera spropositata, tesi nei loro corpi cilindrici, da cui fuoriescono becchucci lunghi quanto è lungo il naso del bugiardo Pinocchio. L’ormone forse impazzito responsabile del loro sviluppo irregolare si rivela di natura psicologica-sentimentale. Questi utensili possiedono un senso eccessivo di se stessi; sono visibilmente caratterizzati da ipertrofia del proprio io; hanno una considerazione esagerata della propria persona. Diciamo che si prendono veramente sul serio, cosìtutto il loro aspetto e il loro contegno appare improntato da un sentimento diffuso di sussiego e di affettazione. La caffettiera e la teiera si presentano chiuse in una sostenutezza molto “collet monté” e i tavolini, quelli sgombri come quelli su cui gli utensili stanno appoggiati, s’innalzano sulle loro gambe con i peducci articolati verso l’esterno come ballerine impegnate nell’assolo di qualche “morte del cigno” – che è poi la quintessenza kitsch della musica romantica.
Marchetti dà ai suoi “quasi” utensili svariati titoli, ma due soprattutto mi sembra che li definiscono con penetrazione. Il primo è il nome di “single”, “singolo”, che è una categoria umana emersa nel costume e messa a fuoco di recente dalla sociologia e dalla letteratura: essa sta ad indicare, come è noto, gli uomini e le donne che hanno scelto di proposito di vivere soli. Con il valore di rottura e con i contenuti psicologici che una simile scelta porta con sé. E’ veramente “single” è una parola efficace per specificare lo spirito d’indipendenza che anima questi utensili.
L’altro titolo infine è “song”, “canto”: l’accostamento di questi oggetti formanti un terzetto ricorda un trio di cantanti che, con impegno e spocchia, eseguono una canzone molto sentimentale degli anni trenta. Il risultato di tutti questi ingredienti non può che appartenere al genere dell’umorismo. L’unione di sostenutezza psicologica e di effetto comico dà come somma tangibile l’obesità degli uni e la rigidità degli altri. Una teiera in ceramica molto panciuta reca appunto il titolo di “obesa”. Dovendo caratterizzare con un aggettivo questo umorismo, impiego senza alcuna incertezza l’aggettivo “bianco”: umorismo bianco di cui l’altissimo esempio resta quello di Buster Keaton. Un che se impiegato con un minimo di prudenza e con qualche distinguo ci aiuta a definire l’umorismo di Marchetti e il posto che occupa l’assortimento dei suoi “quasi” utensili. Uno dei grandi temi di fondo del grande cinema muto è l’incapacità dell’uomo di impiegare correttamente e con disinvoltura i nuovi prodotti di serie messi a disposizione dalla tecnica e dall’industria. E dall’uomo, dalla sua palese imperizia che scaturisce la scintilla bianca dell’umorismo nel “Navigator” di Keaton, ma non affatto dagli utensili che permangono chiusi in loro stessi, forse soltanto troppo caparbi ed indecifrabili.
Non è dunque un questa direzione che dobbiamo rivolgerci per cercare un’ affinità fra l’umorismo di Marchetti e quello cinematografico, ma sempre in direzione del film di animazione, dei cartoni animati. Qui incontriamo sovente un umorismo legato esclusivamente agli oggetti e al loro comportamento, del tutto indipendente da qualsiasi eventuale intervento da parte dell’uomo. Presentati volentieri quali controfigura di caratteri molto umani, gli oggetti acquistano la consistenza di veri e propri personaggi, di due fondamentali temperamenti: di temperamento maligno (che non è il caso degli utensili di Marchetti) oppure presuntuoso, serioso, molto contegnoso (e qui invece ci siamo).
I “quasi” utensili creati da Marchetti sembrano ignorare l’uomo, la sua inettitudine o la sua acquistata bravura nell’impiegarli. Sono diventati autonomi: giocano la loro commedia, cantano, ridacchiano per conto loro. Incredibilmente felici, amano adornarsi di bandierine, appese in alto, come sopra pennoni, oppure in basso, attaccate alle gambe dei tavolini di sostegno, come le ali del dio della fortuna Mercurio. Rassicuriamoci: non ci troviamo davanti ad una ennesima rivolta degli oggetti, a quasto classico motivo nel repertorio dell’avanguardia: assistiamo semmai molto meno drammaticamente alla loro bonaria secessione.
Alberto Boatto
La ‘secessione’ degli oggetti. (Courtesy Ass. Italo Francese Alliance Francaise, Bologna. D. Montanari editore. 1991)
Utile asse di equilibrio divide, ma collega anche, già da tempo scultura e design, architettura e pittura, arti “pure” e arti applicate; Lo spirito inventivo crea poi sull’ambiguità dei rimandi parentele non previste che complicano il gioco introducendo elementi secondari capaci di interesse, a loro volta, trame e consentire sviluppi, ed è qui che si colloca il lavoro di Antonio Marchetti.
Così, ad esempio, l’uso di un certo materiale caratteristico, che ne include altri più consueti, ha come complice dell’inganno un segnale linguistico, magari solo un titolo, a richiamare mediante l’allusione alla forma una scherzosa edizione della scultura oggetto. Oppure la pertinenza stessa del materiale suggerisce una trasmissione di referenti che colloca l’oggetto come rappresentazione. Non si tratta in questi casi di inventare sfide programmatiche utilizzando linee moderne per rilanciare improbabili riprese storicizzanti. Qui la forma è assunta in quanto tale senza ammiccamenti al moderno, piuttosto verso una smodernizzazione che invece di saltare al povero o al primitivo accetta la regola del dato ipotetico e tangibile per svolgersi su quel campo elastico che si stende fra prodotto e consumo: consumo che sembra però elegantemente eluso a vantaggio di una forma autosufficiente, compiaciuta, che si afferma con energia perentoria qui e ora.
Tra Single e Song, raffinate costruzioni che sembrano smentire nella loro sofisticata snellezza (anche “Obesa”) la responsabilità di un formato tutt’altro che ridotto, ironizzano su se stesse puntando proprio sulla proporzione, sull’inefficienza, insomma sul nonsense.
Vittoria Coen
“Cento piccoli” single (Courtesy Galleria Gian Franco Rosini)
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Antonio Marchetti propone oggetti irriverenti, riaffermando la propria consuetudine nello sperimentare la contaminazione tra design, scultura e pittura. I suoi Singles, caffettiere, tavolini, strani insiemi d’arredamento, negano costantemente la propria natura d’uso per umanizzarsi in gesti beffardi.
Incredibilmente fingono anche di essere disponibili all’uso fornendosi di ragionevoli attributi , e tuttavia vivono nella disobbedienza o, in ogni caso, in una dimensione che che non ha altra intenzioni se non quelle dichiaratamente ludiche.
Così i tavolini non mancano di gambe, ma solo per stare in punta di piedi come ballerine, nè sarebbe facile una funzione a teiere e caffettiere in partenza su gioiosi carrettini o agli improbabili lego, strani insiemi di ruote, piccole bandiere e altro. Macchine impossibili, inutili, Macchine Singles, le chiama Marchetti, macchine che, seppure non intendono mostrare l’onnipotenza delle celibi, come queste si dichiarano simulacri autonomi e incomprensibili.
Ma Single è il titolo anche di molti altri lavori, e dunque unico, solo, individuale, il che ha tutta l’aria di voler raccontare l’impossibilità della dimensione pubblica, di relazione (ricordo il Doppio single, un divano a “esse”, a due posti, ma sulla base di appoggio qualcosa di molto appuntito rendeva estremamente pericolosa l’eventuale decisione di sedersi e magari conversare).
Come per Kierkegaard, l’esistente è il singolo, è l’individuo, solo nella sua singolarità . E tuttavia gli aspetti angoscianti che potrebbero derivarne vengono immediatamente sdrammatizzati dall’artista. I suoi oggetti, umanizzati per quel loro atteggiarsi beffardo e un po’ vizioso, affidano nel divertissement le contraddizioni dell’esistenza, giocano con le proprie ombre, a volte addirittura le arricciano, diventano insieme cento, ognuno con la propria solitudine buffona. Per sedurre.
Cristina Marabini
… Il “vizio” di fondo, il carattere connotativo che lo distingue, l’angolosità e l’acutiforme permangono come segni genetici irriducibili e ricchi di infinite variazioni tematiche e simboliche. A guardare questa oggettistica delicatamente colorata (ecco, la delicatezza è cosa nuova in questo artista) in grandi carte ad acquerello, fatta tutti di minuti scomparti, ognuno con un oggetto, sembra vedere la parodia di una enciclopedismo illuminista, pignolo, maniaco e anche vano, alla Bouvard e Pécuchet, per intenderci. Una parodia del collezionismo.
Oppure un politico logorroico e laico nelle cui infinite valve che narrano storie enigmatiche si intravvedono i fantasmi di un surrealismo mattacchione che richiama le assurde “cose” di Depero. Gli oggetti, poi, si metamorfizzano: sono caffettiere, giocattoli, trenini, cassette, dischi volanti che diventano impercettibilmente altro, cose senza senso, oggetti di un universo onirico o esoterico. Mentre il tono, il sottofondo della mostra ridacchia sommesso, è scherzevole, eppure certe asperità , certi aspetti, una certa atmosfera grafica ci inquieta un po’ dentro; forse, è l’alienazione burlona studiata a tavolino, col dono della grazia.
Ivo Gigli
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