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Alberto Giorgio Cassani ha pubblicato nell’ultimo numero della rivista ANFIONE una bella recensione al libro di Antonio Marchetti, IL MIRACOLO DELL’OSTIA PROFANATA, che di seguito abbiamo il piacere di presentare agli amici
il miracolo della scrittura
recensione a Antonio Marchetti,
Il miracolo dell’ostia profanata,
LietoColle, Faloppio (CO) 2015
Accade, qualche volta, che gli artisti siano anche raffinati scrittori. Antonio
Marchetti, vero “dilettante” saviniano, scomparso prematuramente tre anni
fa, ha sempre dedicato alla lettura e alla scrittura una parte importantissima
della sua intensa esistenza (voglio ricordare La lentezza del single,
Stamperia dell’Arancio, 1992, Pescara. Ennio Flaiano e la città parallela,
Unicopli, 2004, L’orecchio alato, LietoColle, 2005, Gineceo, Il filo, 2008, e
Disegno dal vero, Pendragon, 2014).
Il miracolo dell’ostia profanata e` un vero lascito, tra sapiente scrittura e premonizione
della fine. In Donato, figlio di Paolo Uccello, un ragazzo “a cui non
e` stato mai concesso di essere fanciullo”, c’e` molto di Antonio (mi sia permesso
chiamare l’autore semplicemente cosi`, per la nostra lunga amicizia):
oltre alla malattia che lo consumera`, l’irrequietezza, il saper fare – Donato e`
un maestro nella creazione del colore rosso – e il rosso e` la passione, il sangue,
la vita, cose tutte che si ritrovavano in Antonio. Ma Antonio era anche
un valentissimo studioso, attento al dettaglio, come questo lungo racconto
dimostra. La trama si potrebbe dividere in quattro parti: 1. la fanciullezza di
Donato – con i primi segni di quell’infezione (la tabe) che segnera` tutta la sua
vita – al seguito del padre gia` anziano chiamato a Urbino per dipingere la
pala e la predella con il Miracolo, commissionata a Paolo dalla confraternita
urbinate del Corpus Domini. Qui il racconto e la storia divergono: nel primo
la Pala viene affidata a Giusto di Gand, mentre sappiamo che fu Paolo a non
condurre a termine l’opera (che venne proposta anche al grande Piero della
Francesca che non la compi` nemmeno lui e infine a Giusto che finalmente la
porto` a termine). Ma nel racconto, la frustrazione per il mancato incarico
serve a delineare la figura eterodossa di Paolo; 2. il ritorno a Firenze col
padre ormai in vista della fine; 3. l’amicizia con Giobbe di Salomone, ebreo
accettato e sopportato a Firenze e il matrimonio con Sara, ebrea convertita
al cristianesimo, ma rimasta nel profondo fedele alla sua religione d’origine;
4. la fine di Donato, ormai corroso dalla sua malattia.
Nel racconto si evidenziano alcuni temi fondamentali: la mancanza della
madre, morta quando Donato era giovanissimo; un padre – “che pensa
sempre a cio` che ha lasciato e a quello che trovera`, mai al presente o a
situazioni immanenti, sempre con la testa per aria per natura e convenienza”
– di pochissime parole col figlio, riassumibili in due: “Lavati!” (per
via degli arrossamenti con conseguenti grattamenti continui di Donato) e
“vieni”, quando a Paolo serviva la creazione e la stesura di quel rosso che
solo Donato sapeva preparare alla perfezione (un “figliolo monocromatico”,
lo definisce Antonio, che monocromatico non era affatto); l’amicizia con
Giobbe e l’amore per Sara che non lo salveranno, pero`, dalla malattia.
E soprattutto l’ossessione per il contenuto delle sei sequenze della predella,
che lui, divenuto adulto, studia – o meglio chiede di studiare a Giobbe,
molto piu` colto di lui – fornendogli i disegni del padre, fitti di quadrati magici
e di numeri, oltrecheÅL delle meravigliose prospettive di mazzocchi e di vasi.
Un’ossessione che gli nasce dal fatto di aver spesso sentito il padre dirgli
“che il pane della Pasqua degli ebrei era fatto con il sangue dei cristiani,
anche bambini”. Leon Battista Alberti – citato due volte nel racconto (credo
che Antonio, mi si perdoni la piccola vanita`, l’abbia fatto per coinvolgere
un po’ anche me nella sua trama, dal momento che l’impresa albertiana
dell’occhio alato ci ha visto spesso uniti e che Antonio, con grande sprezzatura
saviniana, ha pubblicato, come detto, un libro di aforismi dedicati all’“
orecchio alato”) – ha scritto, anche a proposito degli “enigmi” nascosti nel
geroglifico della sua impresa, che “Explicanda […] sunt mysteria”: i misteri
devono essere spiegati. E Donato, con l’aiuto di Giobbe, tenta di risolvere
quelli nascosti nelle scene della predella. La funzione dell’iconografia non e`
nient’altro che catartica, come ha scritto Edgar Wind.
Il finale e` duro, percheÅL Antonio non si baloccava in consolatori happy end.
Donato, martoriato di giorno dalla sua malattia, di notte e` in preda a incubi
che lo portano a vedere le sei scene come se fossero dei “teatrini” scoperti
in alto, come quelli delle marionette. Ma chi conosce Antonio sa che forse
qui ritorna il ricordo del “teatrino scientifico” del suo amato Aldo Rossi (che
lo ricordava anche un po’, negli occhi). Ma che, a differenza di quello, si
rivela, alla fine, un “teatrino della crudelta`” dell’altrettanto amato Artaud.
Da parte sua Sara, ristabilito l’esatto ordine delle sequenze della predella –
con l’impiccagione della donna che ha compiuto, su commissione dell’ebreo
“usuraio”, il furto dell’ostia per ricomprarsi il mantello, da collocarsi prima
del rogo della famiglia (padre, madre e i due figlioli) – con “la complicita`
silenziosa di Giobbe” ricostruisce l’iconografia delle sei scene del Miracolo
cercando di spiegarne i tanti misteri. E` la terza scena la piu` enigmatica,
con la processione dei sacerdoti che riconsacrano l’ostia. Infatti, come
lei osserva, il tutto avviene apparentemente durante un’eclissi (“di luna o
di sole?”). E qui la voce dell’irreligioso Luciano (o fors’anche dell’Alberti di
alcune Intercenali) irrompe nelle pagine di Antonio:
Qual e` la connessione tra posizioni di pianeti ed eventi dell’umanita`? La sfera umana e`
forse subordinata ai moti celesti ove cause ed effetti, colpevoli ed innocenti, vittime e
carnefici si dispongono in uno stesso piano di predestinazione? Ma se tutto e` gia` fatalisticamente
scritto che senso avrebbe l’azione umana? Dove starebbe la liberta` dell’uomo
ed il suo libero arbitrio?
Come chiosa Antonio: “Tante domande per procurarsi un bel mal di capo”.
Quel che e` certo, pero`, di la` dalle finissime letture ermeneutiche di Giobbe e
Sara, e` che alla fine la “magnifica Predella” – “Non e` un paradosso Giobbe trovarsi
di fronte ad un’opera cosi` antigiudaica!”, domanda Sara; “Il paradosso e`
che mi piace”, risponde Giobbe – diverra` il luogo di fronte al quale “si sarebbero
esercitati i campioni della propaganda antiebraica […]. Generazioni su generazioni
di urbinati, e non solo, saranno educati alla verita` ed alla vera giustizia
da questi convincenti cantastorie militanti della fede”. L’arte, anche quella piu`
sublime e colma di enigmi, rischia sempre di avere una riduttiva lettura vulgata
che l’appiattisce e la fa diventare manifesto dell’ortodossia piu` nefanda. Non
c’e` speranza, dunque? Il finale non ne lascia, affidando a noi, con tutte le sue
domande senza risposta, “una donna inconsolabile, ancora bambina”.
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