Single

Marzo 29th, 2010 § 0 comments § permalink

Galleria Gianfranco Rosini

Antonio Marchetti disegna, progetta, realizza in ferro, lamiera, e terracotta una serie di “quasi” utensili – e nell’avverbio “quasi” è espressa sia la distanza esistente fra i suoi utensili “quasi” e gli utensili veri, sia la loro specifica essenza. Non so se siano effettivamente funzionali; ma mi sembra che potrebbero benissimo esserlo: né la loro conformazione né i materiali di cui sono fatti contraddice veramente la loro funzione eventuale. E tuttavia restano senza dubbio dei “quasi” utensili per il fatto che in loro l’aspetto esterno si presenta di gran lunga più importante della funzione.

Galleria Cesare Manzo

Ci troviamo di fronte a degli oggetti-personaggio di taglia gigantesca – anche nei disegni di piccolo formato le dimensioni si mostrano sempre al di sopra della norma – cresciuti in maniera spropositata, tesi nei loro corpi cilindrici, da cui fuoriescono becchucci lunghi quanto è lungo il naso del bugiardo Pinocchio. L’ormone forse impazzito responsabile del loro sviluppo irregolare si rivela di natura psicologica-sentimentale. Questi utensili possiedono un senso eccessivo di se stessi; sono visibilmente caratterizzati da ipertrofia del proprio io; hanno una considerazione esagerata della propria persona. Diciamo che si prendono veramente sul serio, cosìtutto il loro aspetto e il loro contegno appare improntato da un sentimento diffuso di sussiego e di affettazione. La caffettiera e la teiera si presentano chiuse in una sostenutezza molto “collet monté” e i tavolini, quelli sgombri come quelli su cui gli utensili stanno appoggiati, s’innalzano sulle loro gambe con i peducci articolati verso l’esterno come ballerine impegnate nell’assolo di qualche “morte del cigno” – che è poi la quintessenza kitsch della musica romantica.
Marchetti dà ai suoi “quasi” utensili svariati titoli, ma due soprattutto mi sembra che li definiscono con penetrazione. Il primo è il nome di “single”, “singolo”, che è una categoria umana emersa nel costume e messa a fuoco di recente dalla sociologia e dalla letteratura: essa sta ad indicare, come è noto, gli uomini e le donne che hanno scelto di proposito di vivere soli. Con il valore di rottura e con i contenuti psicologici che una simile scelta porta con sé. E’ veramente “single” è una parola efficace per specificare lo spirito d’indipendenza che anima questi utensili.

L’altro titolo infine è “song”, “canto”: l’accostamento di questi oggetti formanti un terzetto ricorda un trio di cantanti che, con impegno e spocchia, eseguono una canzone molto sentimentale degli anni trenta. Il risultato di tutti questi ingredienti non può che appartenere al genere dell’umorismo. L’unione di sostenutezza psicologica e di effetto comico dà come somma tangibile l’obesità degli uni e la rigidità degli altri. Una teiera in ceramica molto panciuta reca appunto il titolo di “obesa”. Dovendo caratterizzare con un aggettivo questo umorismo, impiego senza alcuna incertezza l’aggettivo “bianco”: umorismo bianco di cui l’altissimo esempio resta quello di Buster Keaton. Un che se impiegato con un minimo di prudenza e con qualche distinguo ci aiuta a definire l’umorismo di Marchetti e il posto che occupa l’assortimento dei suoi “quasi” utensili. Uno dei grandi temi di fondo del grande cinema muto è l’incapacità dell’uomo di impiegare correttamente e con disinvoltura i nuovi prodotti di serie messi a disposizione dalla tecnica e dall’industria. E dall’uomo, dalla sua palese imperizia che scaturisce la scintilla bianca dell’umorismo nel “Navigator” di Keaton, ma non affatto dagli utensili che permangono chiusi in loro stessi, forse soltanto troppo caparbi ed indecifrabili.

Galleria dell'immagine, Rimini

Non è dunque un questa direzione che dobbiamo rivolgerci per cercare un’ affinità fra l’umorismo di Marchetti e quello cinematografico, ma sempre in direzione del film di animazione, dei cartoni animati. Qui incontriamo sovente un umorismo legato esclusivamente agli oggetti e al loro comportamento, del tutto indipendente da qualsiasi eventuale intervento da parte dell’uomo. Presentati volentieri quali controfigura di caratteri molto umani, gli oggetti acquistano la consistenza di veri e propri personaggi, di due fondamentali temperamenti: di temperamento maligno (che non è il caso degli utensili di Marchetti) oppure presuntuoso, serioso, molto contegnoso (e qui invece ci siamo).
I “quasi” utensili creati da Marchetti sembrano ignorare l’uomo, la sua inettitudine o la sua acquistata bravura nell’impiegarli. Sono diventati autonomi: giocano la loro commedia, cantano, ridacchiano per conto loro. Incredibilmente felici, amano adornarsi di bandierine, appese in alto, come sopra pennoni, oppure in basso, attaccate alle gambe dei tavolini di sostegno, come le ali del dio della fortuna Mercurio. Rassicuriamoci: non ci troviamo davanti ad una ennesima rivolta degli oggetti, a quasto classico motivo nel repertorio dell’avanguardia: assistiamo semmai molto meno drammaticamente alla loro bonaria secessione.

Alberto Boatto

La ‘secessione’ degli oggetti. (Courtesy Ass. Italo Francese Alliance Francaise, Bologna. D. Montanari editore. 1991)

Galleria Balena, Rimini

Utile asse di equilibrio divide, ma collega anche, già da tempo scultura e design, architettura e pittura, arti “œpure” e arti applicate; Lo spirito inventivo crea poi sull’™ambiguità dei rimandi parentele non previste che complicano il gioco introducendo elementi secondari capaci di interesse, a loro volta, trame e consentire sviluppi, ed è qui che si colloca il lavoro di Antonio Marchetti.
Così, ad esempio, l’™uso di un certo materiale caratteristico, che ne include altri più consueti, ha come complice dell’™inganno un segnale linguistico, magari solo un titolo, a richiamare mediante l’allusione alla forma una scherzosa edizione della scultura oggetto. Oppure la pertinenza stessa del materiale suggerisce una trasmissione di referenti che colloca l’™oggetto come rappresentazione. Non si tratta in questi casi di inventare sfide programmatiche utilizzando linee moderne per rilanciare improbabili riprese storicizzanti. Qui la forma è assunta in quanto tale senza ammiccamenti al moderno, piuttosto verso una smodernizzazione che invece di saltare al povero o al primitivo accetta la regola del dato ipotetico e tangibile per svolgersi su quel campo elastico che si stende fra prodotto e consumo: consumo che sembra però elegantemente eluso a vantaggio di una forma autosufficiente, compiaciuta, che si afferma con energia perentoria qui e ora.
Tra œSingle e œSong, raffinate costruzioni che sembrano smentire nella loro sofisticata snellezza (anche “™Obesa”) la responsabilità di un formato tutt’™altro che ridotto, ironizzano su se stesse puntando proprio sulla proporzione, sull’™inefficienza, insomma sul nonsense.

Galleria Cesare Manzo, Pescara

Vittoria Coen

“Cento piccoli” single (Courtesy Galleria Gian Franco Rosini)

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Antonio Marchetti propone oggetti irriverenti, riaffermando la propria consuetudine nello sperimentare la contaminazione tra  design, scultura e pittura. I suoi Singles, caffettiere, tavolini, strani insiemi d’arredamento, negano costantemente la propria natura d’uso  per umanizzarsi in gesti beffardi.

Incredibilmente fingono anche di essere disponibili all’uso fornendosi di ragionevoli attributi , e tuttavia vivono nella disobbedienza o, in ogni caso, in una dimensione che che non ha altra intenzioni se non quelle dichiaratamente ludiche.

Così i tavolini non mancano di gambe, ma solo per stare in punta di piedi come ballerine, nè sarebbe facile una funzione a teiere e caffettiere in partenza su gioiosi carrettini o agli improbabili lego, strani insiemi di ruote, piccole bandiere e altro. Macchine impossibili, inutili, Macchine Singles, le chiama Marchetti, macchine che, seppure non intendono mostrare l’onnipotenza delle celibi, come queste si dichiarano simulacri autonomi e incomprensibili.

Single freak

Ma Single è il titolo anche di molti altri lavori, e dunque unico, solo, individuale, il che ha tutta l’aria di voler raccontare l’impossibilità della dimensione pubblica, di relazione (ricordo il Doppio single, un divano a “esse”, a due posti, ma sulla base di appoggio qualcosa di molto appuntito rendeva estremamente pericolosa l’eventuale decisione di sedersi e magari conversare).

Come per Kierkegaard, l’esistente è il singolo, è l’individuo, solo nella sua singolarità . E tuttavia gli aspetti angoscianti che potrebbero derivarne vengono immediatamente sdrammatizzati dall’artista. I suoi oggetti, umanizzati per quel loro atteggiarsi beffardo e un po’ vizioso, affidano nel divertissement le contraddizioni dell’esistenza, giocano con le proprie ombre, a volte addirittura le arricciano, diventano insieme cento, ognuno con la propria solitudine buffona. Per sedurre.

Cristina Marabini

Single rompu
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"Cento piccoli single", Galleria Gianfranco Rosini

… Il “vizio” di fondo, il carattere connotativo che lo distingue, l’angolosità e l’acutiforme permangono come segni genetici irriducibili e ricchi di infinite variazioni tematiche e simboliche. A guardare questa oggettistica delicatamente colorata (ecco, la delicatezza è cosa nuova in questo artista) in grandi carte ad acquerello, fatta tutti di minuti scomparti, ognuno con un oggetto, sembra vedere la parodia di una enciclopedismo illuminista, pignolo, maniaco e anche vano, alla Bouvard e Pécuchet, per intenderci. Una parodia del collezionismo.

Piccoli single, Galleria Gianfranco Rosini

Oppure un politico logorroico e laico nelle cui infinite valve che narrano storie enigmatiche si intravvedono i fantasmi di un surrealismo mattacchione che richiama le assurde “cose” di Depero. Gli oggetti, poi, si metamorfizzano: sono caffettiere, giocattoli, trenini, cassette, dischi volanti che diventano impercettibilmente altro, cose senza senso, oggetti di un universo onirico o esoterico. Mentre il tono, il sottofondo della mostra ridacchia sommesso, è scherzevole, eppure certe asperità , certi aspetti, una certa atmosfera grafica ci inquieta un po’ dentro; forse, è l’alienazione burlona studiata a tavolino, col dono della grazia.

Ivo Gigli

"Los trios"

Single in costruzione

"Trios"

"Fuori uso", ex Aurum, Pescara

Vario son da me stesso

Marzo 16th, 2010 § 0 comments § permalink

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“Vario son da me stesso”

Per Antonio Marchetti artista, è quasi impossibile identificare una valida definizione.
Potremmo considerarlo un eclettico per eccellenza, una sorta di intellettuale in cui il pittore, lo scultore, lo scrittore, l’editore, convivono in maniera singolare; l’importante esempio di un artista che non rifiuta la parola e non si rifugia nel mutismo per lasciar parlare le opere, secondo una vecchia concezione estetica.

"Konzert"

Tutta la sua attività sta a confermare la capacità grazie al dono dell’ironia, di spaziare in campi d’indagine diversi, con risultati sempre efficaci ed originali.
Ho conosciuto Antonio alla fine degli anni Settanta durante le lezioni di Storia dell’Arte all’Università di Pescara. Lui frequentava Architettura, io Lingue. I nostri approcci erano diversi anche se comune l’interesse per l’arte. Nel 1985 l’ho ritrovato a Pesaro, alla Galleria Deposito Figure, dove presentava la rivista “Stilo”. A quel tempo già cercava di non assecondare lo stereotipo dell’artista unicamente assorbito dalla sua ricerca estetica. Dipingeva e nello stesso tempo dirigeva una tra le più intelligenti e particolari riviste apparse nella baraonda cultural-consumistica degli anni ’80. Scoprii più tardi che essa era funzionale sia alla sua continua voglia di conoscenza che alla sua indomita necessità di dialogo e confronto. “Stilo” è stato un punto di incontro culturale, realizzato con grande sforzo e partecipazione da un artista che avvertiva come la conoscenza vera avesse bisogno del fare concreto, dalla progettualità realizzata.
Due anni più tardi una personale alla Galleria Manzo di Pescara, “Mimetico e Leggero”, presentata da Giacinto Di Pietrantonio, mi rivelava la sua produzione pittorica. I dipinti esposti sembravano ridursi in due tematiche principali: una che definirei poetica degli interni (nature morte, oggetti colti in momenti particolari con luci che regalavano alla loro immobilità un presentimento di vita segreta), l’altra che evocava spazi siderali, luoghi dalle tonalità notturne in cui si descrivevano comete di passaggio in spazi infiniti.

Tra queste una mi aveva colpito, lo “Psiconavigante”. Marchetti in questa opera rappresenta mirabilmente un personaggio sospeso in uno spazio astratto, in cammino dentro i notturni meandri della psiche, mentre viene colto da un’intuizione improvvisa, un’epifania. Un’opera in cui la concentrazione dell’attimo e l’accenno al continuo fluire degli eventi vengono rappresentati in una sintesi ammirevole. Ne fui affascinato, l’acquistai e oggi contrappunta molti dei miei attimi quotidiani.

Da quel momento, lo sviluppo dei nostri incontri e delle rinnovate discussioni si sono accordati a quello della sua ricerca e della mia conoscenza di essa. Alla fine degli anni ’80 Marchetti ha spostato l’azione verso la scultura ed il disegno che, in ogni caso, si riallacciavano con coerenza alle precedenti esperienze pittoriche. Appaiono i “Single”, oggetti scultura usciti da alcuni suoi dipinti per materializzarsi tridimensionalmente nello spazio. Potrebbero essere concepiti come “caffettiere” ma sapendo che il termine esprime la produttività della macchina, il funzionamento autosufficiente, il meccanismo di singolarità. I “Single” di Marchetti sono anche oggetti-personaggio, elementi non imbrigliati nella loro staticità decorativa, ma unità capaci di trasformarsi in particolari emblemi carichi di accordi e suoni segreti.

Museo dell'arredo contemporaneo. Russi, Ravenna

Altra caratteristica della sua ricerca è l’importanza attribuita al disegno come espressione originaria e come principio basilare del progetto preordinato. Il disegno per Marchetti non è soltanto appunto progettuale, primo abbozzo per opere successive, ma si fa spazio autonomo di indagine. Egli potrebbe fare sua la frase di Goethe: “quello che io non ho disegnato non l’ho visto”; il disegno come strumento che permette all’atto stesso di concretizzare l’intuizione. In molte opere dell’artista il titolo assume grande rilevanza, rappresentando il legame evidente con la sua passione per la scrittura; nei dipinti e disegni non appare come semplice cifra grafica, ma come segnale di evocazione. Nelle sue opere il titolo non risulta mai banalmente esplicativo o straniante, direi piuttosto che aumenta o rafforza il senso sotteso, una sorta di evidenziatore semantico. Con l’evoluzione della sua ricerca l’interesse critico per la sua produzione aumenta.
Tra le mostre più importanti ricordiamo: “Materialmente”, (una riflessione sulla scultura degli anni ’80) curata da Cristina Marabini e Dede Auregli alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna, le personali “Disegni e sculture” alla Galleria dell’Immagine a Rimini e “Cento piccoli Single” alla Galleria Gian Franco Rosini presentata da Vittoria Coen. Pubblica per le Edizioni Essegi, “Plateau”, con un testo di Alberto Boatto. La sua ricerca, all’inizio degli anni ’90, si sposta verso la riflessione sul sottile meccanismo del gioco combinatorio. Piccoli disegni che, assemblati, creano un puzzle o arazzo; elementi che, mentre si riducono a formule geometriche essenziali, sottintendono la possibilità di combinazioni complesse. Un gioco ironico e sottile dove le miniaturizzazioni si assemblano come in un movimento prolifico per rivestire grandi superfici.
L’ultima sperimentazione dell’artista privilegia l’installazione, coinvolgendo tutto lo spazio in cui interviene. Ad “Anni Novanta”, la mostra curata da renato Barilli, egli precisa in maniera originale questo suo approccio. In un affascinante ed eterogeneo insieme, egli sistema anche a terra cento piccoli “Single” di cartone su cui scrive cento diversi titoli in un gioco di nominazioni differenti, mentre a parete campeggia una frase di Arcimboldo restituita dalla gioiosa libertà dell’acquerello: “Vario son da me stesso”. Una frase che per Antonio Marchetti rappresenta anche una carta d’identità.

Umberto Palestini


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La mia casa.

“Quando parto mi porterei via tutto”, dice Giuliana, personaggio chiave, in “Deserto Rosso” di Antonioni.

È riposto in questo pensiero il senso di un mancamento, di un’insufficienza di ciò che saremmo, privati delle cose; esse ci rappresentano, ci testimoniano, anche nella nostra assenza; come, al contrario, possono divenire permanenza espropriata al nostro venir meno.

Nel riconoscimento empatico di sagome familiari, assunte come cifrario, come sistema, come sistema di segni prende forma, nel frammento, l’opera di Antonio Marchetti. L’opera come l’esistenza si dà in una pluralità di parti, dunque, il frammento innanzitutto è una modalità di esserci, implica una scelta.

"Disk"

Tra le prioritarie ed antiche urgenze del linguaggio, vi è quella di fare dell’immagine, della scrittura il luogo fisico di ciò che ci appartiene, ancora prima di qualsiasi operazione di trasferimento simbolico, di reinvenzione astrattiva del mondo. Questa reciprocità, questo suo valore primario, archetipico, essenziale trovano una ragione d’essere fondamentale, oggi, nell’endemica proliferazione dei linguaggi, che in un paradosso epocale produce un disagio comunicativo, una condizione di carenza espressiva. Sempre più vistosamente è dato assistere ad un processo di elusione, più o meno volontario del reale ad opera del linguaggio; pare che esso campeggi quale momento autonomo, scisso dal pensiero, dai sentimenti, abbia perduto la sua funzione di conoscenza, di possesso; abbia prevalso il suo carattere degenerativo, di inganno, il suo uso politico nella forma del brusio.

Eppure quella cosa, quel corpo che è linguaggio siamo noi. In esso è dato riporre, in un accumulo lento, in un sedimentarsi, ritmato dalle frequenze del nostro respiro, nel differente accordo con l’esistenza, le tracce, i labili segni del nostro passare. In esso la volontà di resistere nel tempo che seguirà alla nostra morte.

Le cose siamo noi: quasi sfacciata e arrogante la loro persistenza.

L’immagine si fa oggetto, lo accoglie per rifondarlo. Io sono sempre diverso nell’atto di questa operazione; nel mostrarci, l’opera ci parla della nostra differenza nella continuità.

Le bandierine, le caffettiere, le piccole case, come i dischi volanti di Antonio Marchetti sono caratteri, parole chiave che strutturano il discorso poetico, la pars destruens, ironica oltraggiosa, un po’ malata, deviante, in rivolta contro l’altro, che, anche, è in noi.

È stata detta “parole”, “scrittura” questa componente eccedente del linguaggio, che il poeta flette nella lingua e la plasma, la fa propria.

"Tre case"

In questa forza di coesione, in questa tenuta è data l’opera, la sua durata. Essa si fa riconoscere, dandosi tra vari estremi: dall’irripetibilità del single, presente nel frammento, alla sua abdicazione quasi sacrificale nel molteplice; dalla massima invasione dello spazio alla sparizione entro un piccolo contenitore, dalla superficie all’oggetto, dall’immobilità del trenino di terracotta, all’animazione un po’ perversa degli utensili, degli oggetti meccanici che si innervano sul piano del supporto, protestando del luogo, in attesa di variare posizione, insofferenti del mezzo che ha dato loro forma.

L’opera di Antonio Marchetti è reattiva nei confronti del presente e al contempo comprensiva. Si mostra, in una tensione progettuale del reale, ben cosciente della prorpia autonomia e inattualità. Il cambiamento delle coordinate contestuaali determinerà una nuova messa in scena o se vogliamo una mise en abîme: l’esibizione scenica comporta un rischio estremo, né il gioco è meno pericoloso; il suo carattere di non necessità rende l’opera aperta ad un possibile. Le tessere di acquerelli, nel loro proliferare, nell’insorgenza di segni pescati dall’immaginario quotidiano, dell’infanzia, appaiono, sono evento colorato che vibra alla luce, figurine per giocare e da scambiare.

"Cento single"

Ma il più impercettibile turbamento farà aumentare la loro già connaturata mobilità, e da composte e ben ordinate potrebbe darsi che assumano posizioni irriverenti, si capovolgano, si ribaltino, cadano ad una ad una nella scatola destinata ad accoglierle; nella loro leggerezza, nella consistenza di cartoncino sottile è implicita l’idea di una moltiplicazione, come di una scomparsa; tutto può darsi nell’immagine, in questo doppio.

Nell’apparente divertimento del gioco, l’innocenza è perduta.

La levità del piacere visivo contiene ma certo non sovrasta l’inquietudine della ripetizione; nello spostamento impercettibile, nella variazione lenta, non nella notte ma nell’ordine del giorno, nella precisione del tratto, nella liquidità tersa del colore si stende l’ombra qualche piccololo scelus.

Virginia Cardi

© Galleria d’arte Balena

"Face"

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Galleria Balena, Rimini
"Vetrata"
Teatro Petrella, Longiano. Mostra "A Teatro!"
"Freaks", Galleria Gianfranco Rosini
Le Navi, Cattolica. "Anni Novanta"
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«Vario egl’è da se stesso». A tu per tu con Antonio Marchettidi Marina Mannucci

«Come la melanconia è la tristezza diventata leggera

Così lo humor è il comico che ha perso la pesantezza corporea»

Italo Calvino, Lezioni americane

Erano un po’ di mesi che pensavo ad un’intervista ad Antonio Marchetti; la consapevolezza delle mie inappropriate conoscenze in campo artistico mi ha però indotto per lungo tempo a frenare i miei entusiasmi. L’urgenza di poter testimoniare l’opera di questo artista che ha vissuto, lavorato e realizzato importanti progetti sia artistici che culturali a Ravenna, mi ha infine convinta ad “azzardare”; ho pensato che avrei potuto superare furbescamente il mio ostacolo “intellettuale”, limitandomi a concentrare l’intervista su alcune domande che facessero ricadere completamente su Antonio l’onere del “raccontare”. In tal modo, non solo ho schivato le fondate remore, ma ho anche avuto la certezza di regalare ai lettori una testimonianza importante sia dal punto di vista artistico che dell’esposizione dei contenuti. Antonio Marchetti, «flâneur sulla spiaggia deserta», oltre «ad essere cattivo, con un’ironia da retrobottega, riservata al buon palato, coltivare serpi in seno e sputare su dio e sui santi non dimenticando donne e bambini che sempre andrebbero salvati (e per primi), oltre a non amare il vicinato e ad essere fedele alla linea che non c’è», come scrive Simonetta Melani su «Il Grandevetro», ha infatti il dono, assai raro, di scrivere nel modo unico, essenziale ed esaustivo di chi nasce dotato di quel talento che trasforma il pensiero astratto in simboli scritti non lasciando che nulla si perda nella trasposizione.

Antonio, iniziamo con il racconto del tuo arrivo a Ravenna e dell’impatto col “vivere” e l’essere artista in questa città criptica e ipnotizzante?

Sono arrivato a Ravenna alla fine del 1981. C’era un posto al Liceo Artistico. Venivo da una città ove per avere un certificato facevi una richiesta e lo ritiravi giorni dopo, mentre qui l’impiegata comunale mi richiamò: “dove va? aspetti 5 minuti e le consegno la nuova residenza”. A Pescara la domenica mattina ci si vedeva in piazza, qui invece la piazza era vuota: dove si nascondevano i ravennati? Fascinazione e distanza hanno accompagnato il mio soggiorno in questa enigmatica città, quasi 14 anni. Fascinazione per la nebbia avvolgente che prepara apparizioni (io l’ho sempre vissuta, la nebbia, come cifra erotica…), per la bellezza dei suoi monumenti e l’efficenza dei servizi al cittadino, per il temperamento delle sue donne con un’emancipazione superiore al resto del Paese, per la qualità dell’istruzione che mio figlio ha avuto la fortuna di usufruire sino all’adolescenza. Distanza perché tutto mi appariva sin troppo organizzato e ingessato, con molte contraddizioni: “comunismo” con alto senso della proprietà, culto del dialetto ed intrusione culturale quasi proto-leghista, diffidenza verso l’altro, verso l’extramuros, scarsa possibilità di iniziativa individuale visto che tutto era cooperativa (persino i bar), tutto partito o, in alternativa, massoneria. Eppure pian piano, questa città ti sa dare anche molto, e per me questo è stato importante perché non ho mai scelto un’appartenenza, pagando prezzi anche alti sul piano personale ed artistico. Con l’incoscienza che si ha da giovani fondai una rivista, «Stilo», che mi ha dato la possibilità di conoscere artisti ed intellettuali di fama internazionale. L’esperienza si concluse con il convegno “L’immagine della Terra” a Palazzo Corradini ove allestii una mostra di Mario Giacomelli, la sua famosa serie “Storia della terra” (credo fosse la prima volta per Ravenna). Nel tempo ho avuto due studi in città, ma come artista ero invisibile, extracomunitario, non ho mai esposto a Ravenna (a parte una piccola cosa da Danilo Montanari nel suo spazio vicino Piazza del Popolo). Quando negli anni Novanta mi sono trasferito a Rimini ho fatto la mia prima mostra ravennate in Santa Maria delle Croci (si intitolava “Costruzione del dolore”). Insomma dovevo andare via per far qualcosa in città. Poi ci fu l’invito di Franco Masotti per il Ravenna Festival nel ’97 con il suo progetto “Transcaucasia” a cui partecipai con l’installazione “La Camera verde” nella Cripta Rasponi e con il mio “Ascoltando Kancheli”. Aggiungo la bella avventura intellettuale del Circolo Gramsci, che considero un’esperienza formativa in cui mi sono anche divertito molto, notevole libertà, mi sentivo quasi sdoganato pur non avendo la tessera del Partito, un’esperienza per Ravenna quasi unica, in un crinale storico ove forse ciò era possibile, impensabile oggi con la stessa scioltezza audacia e senso giocoso, pur affrontando tematiche molto serie ed epocali, alcune profetiche…

Alcuni amici di allora sono rimasti tali e con loro ogni tanto si fa qualcosa insieme. Con Alberto Giorgio Cassani abbiamo una collaborazione da anni, Gian Paolo Solitro documenta fotograficamente il mio lavoro da oltre 25 anni, ha quasi tutto il mio archivio. Per me Ravenna è ancora una risorsa della mia esistenza, e del mio lavoro. Ci torno sempre volentieri e le cose negative con il tempo si stemperano lasciando in risalto quelle positive. Sarà l’età, non so…

Quindi del tuo soggiorno a Ravenna, nel ricordo, è inevitabile un intreccio di persone, situazioni e luoghi, le cui sfumature variano nel tempo?

A Ravenna ho conosciuto e lavorato con bravissimi artigiani. Con un anziano fabbro di Mezzano realizzai diversi lavori scultorei e con Ricardo Casciello, che lavorava all’epoca nei cantieri navali, ho realizzato un “single” (così si chiamavano i miei lavori negli anni Ottanta) gigantesco, in lamiera zincata, esposto alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna nella mostra “Scultori degli anni Ottanta”. A Faenza ho ripreso il lavoro con la ceramica che avevo conosciuto da ragazzo a Francavilla al mare, vicino Pescara, da uno scultore ceramista presso il quale mia nonna d’estate mi mandava per tenermi occupato. Dopo Faenza è venuta la conoscenza della provincia di Ravenna e delle sue terre più estese, una rivelazione. Bagnacavallo, Lugo, Comacchio, Porto Garibaldi, la struggente e melanconica, d’inverno, Casal Borsetti; la campagna, infinita, nebbiosa e notturna con fantasie di vite clandestine e letterarie. Nei viaggi tra i luoghi erano i vuoti spaziali da colmare per arrivarci ad affascinarmi di più, ma non erano vuoti, erano esperienze. Un dipingere con gli occhi. Nelle saline di Cervia i tramonti d’ottobre sono mirabili, nella foce del Bevano c’era una Iliade miniaturizzata. In questa conoscenza più “profonda” e “rivelatrice” del paesaggio ravennate (ancora per poco l’orribile parola “territorio” teniamola a distanza) ho vissuto nuovi e inaspettati amori. A questa città apparentemente statica io corrispondevo con i miei anni più avventurosi e rischiosi, direi dai trenta ai quarant’anni. Questa è l’età, per un uomo ed un’artista, della massima forza e potenza (e incoscienza), ma sono anni anche critici; qui si costruisce la consapevolezza ed un possibile futuro.

Però mi è mancato il mare. Al mio primo arrivo in stazione vidi i ponti delle navi sopra i profili dei treni. Sorprendente. Ma non era il mare, il “mio” mare. Il mare lo ascriverei alla categoria della distanza. C’era, ma non all’orizzonte, e non a portata di bracciate, e soprattutto mi appariva come rimosso. Ravenna è città di “terra”. Come la sua cucina.

Negli anni Novanta, poi, la mostra curata da Renato Barilli: un evento importante.

Mi chiedi della mostra anni Novanta di Barilli. Scusami se rispondo prendendola larga. Gli anni Novanta, non dimentichiamolo, si aprono con guerre, nazionalismi e odi etnici, e con la cosiddetta prima guerra del golfo. Nel 1988 feci un viaggio in Unione Sovietica, in piena crisi di regime, e conobbi quasi casualmente un folle e affascinante Evgenij Evtušenko che stava girando un film su Stalin; mi sembrava che tutto fortunatamente si stesse sfaldando, tutto si rimescolava… io ho vissuto quei due anni dal 1988 al 1990 in modo quasi febbrile  sul piano creativo, esistenziale, politico. Nel 1991 ho cambiato vita dal punto di vista familiare, ripartendo quasi da zero. Mi ero appassionato ad Hannah Arendt e decisi una volta tanto di rivolgermi al Partito, non conoscevo nessuno, per proporre una iniziativa sul suo pensiero. Mi dissero che c’era un giovane che voleva ricostituire un ormai morto Centro Gramsci in città. Mi incontrai alla “Ca’ de Vèn” con un ragazzino di nome Alberto Cassani infilato dentro una divisa da vigile del fuoco. Da lì nacque il Circolo Gramsci, con il logo realizzato e donato da Claudio Bartolucci di Pesaro. Ci tengo a “ridire” questo perché le memorie vanno scomparendo e la politica le uccide. La mostra alle ex colonie “Le Navi” di Cattolica per “Anni Novanta” dell’ineffabile Barilli per me fu la sintesi di quello che ti ho detto prima: piccole macchine da guerra, carri armati di cartone e un esercito di carrettini contenenti ciascuno una declinazione della parola “single”. A parete, grandi caratteri acquerellati a formare l’enunciato “vario son da me stesso”, ormai mia cifra personale e che dal 2007 è anche il nome del mio “journal”, blog se vuoi, sul web. Era il mio manifesto.

In quegli anni mi sentivo “sismografo”, ed avevo anche un po’ di “mercato”.

I tuoi lavori, contrassegnati da riflessioni materiche legate all’architettura, lasciano trasparire la necessità di usare luoghi, spazi e volumi per comunicare, per esprimere la tua arte; in “Citycolor”, la tua ultima personale del 2010, si aggiunge un’esplosione di colore che esprime, beffarda, un’ironica “leggerezza”.

L’architettura mi accompagnerà per tutta la vita. Non sono architetto, non ho concluso gli studi di architettura, e credo di essere un paradosso perché la insegno al Liceo da 36 anni senza una laurea.  Altre normative, alla fine degli anni Settanta… Sono un  dilettante, un autodidatta, ed il problema del dilettante è che deve studiare continuamente, un po’ come l’eroe greco che deve dimostrare sempre, ogni volta, il suo valore, deve ricominciare ogni volta daccapo mentre chi ha gli studi a posto si può “rilassare”. Il dilettante è fastidioso come puoi immaginare. Il mio è un approccio all’architettura dilettantistico, e non dilettantesco. Sono appassionato di storia dell’architettura del Novecento e di quella contemporanea. L’architettura è presente nel mio lavoro sia nell’aspetto installativo, con le inevitabili letture ed interazioni spaziali, che nell’opera pittorica. La mia ultima mostra personale a Rimini, nella Galleria percorsi Arte Contemporanea nell’ottobre del 2010, si intitolava per l’appunto “Citycolor”. Sono immagini di città, risolte tridimensionalmente, a volte costruite con spilli per entomologia. C’è molto cromatismo nelle mie ultime cose. Da anni sono passato dalla “costruzione del dolore” alla “ricostruzione del colore”, come auspicava per me lo scomparso Giorgio Gallizio. Con il colore ho riscoperto la “leggerezza”, che, per attuarsi –  utilizzando  una metafora architettonica – ha bisogno di “stabilità”; parola da aggiungere a quelle di Italo Calvino nelle sue Lezioni americane.

Sì, hai ragione Antonio, «la leggerezza […] si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso» (Calvino): grazie per avermi concesso questa “preziosa intervista”.

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Febbraio 2011. Pubblicato su “Trovacasa”, Ravenna

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variosondamestesso antonio marchetti

Nervous System

Marzo 16th, 2010 § 0 comments § permalink

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"Nervous system", Galleria Cesare Manzo

Alberto Boatto

“Nervous System”

Successive cultures have been conscientious in indicating the epicentre of human existence, placing it in multiple and ever differentiated parts of the human body, in the solar plexus or in the heart, in the lobes of the brain or in the pneuma, the breath or in the murmur of the lungs. I mean “epicentre” in an eruptive and dynamic sense, like writing about the ” epicentre of a earthquake”.

In this way a detailed topography of the body is configured; as if opening out the topography of a city with is crossroads, its one-way streets and its underground passages.

There is no doubt that what is insistently indicated as the centre today is the nervous system, a very diffused and concentrated order, spreading to the periphery and gathered together at several points. As much as this kind of topography cannot be identified, today as in the past, with an anatomical topography tout court, a play of crossovers and exchanges remains active. In saying “nervous system”, I imagine an anatomical-centre, the brain or the spinal cord – and a band of delicate and vibrant threads that are spread throughout the living body.

The vibration is like that of seaweed or, with greater similarity, the metal wires of a piano, beaten by hammers wrapped, very much to the point, in skin. Placing the epicentre of man in the nervous system means gathering life around its senses and its movements, discovering, revealing, stripping, sectioning, skinning and exposing.

An operation to which any measure of indulgence is foreign, but which belongs to its opposites, bearing the hard and accentuated names of lucidity and cruelty. Antonio Marchetti places us in front of a monumental topography of this completely uncovered, exposed and dispersed universe. Closed fists, with the thumb fixed firmly to the index finger, that move between hyper-realism and the spectral, holding out and stretching long black rags. Just as mankind’s nerves are stretched and distorted by the violence of reality, its pressures and stimuli. Or how a painter spreads the brushwork and strokes of his spatula. Today I feel like a limp rag, is not said by a character out of Beckett, but a commonplace of everyday life. But from this extremely miserable and self-pitying psychology, Marchetti has extracted a very objective blow-up. He has created a monument out of a metaphor around the obscure reactions of the nerves.

The vivisection is conducted between the physical claims of the material and the abstract chromatic temptations present in the clear and dissonant relationship between black and white. The “lines of force” that draw a great temporal arc in the development of modern art, have been transformed into nerves, fibres, tensions and spasms. And the elegance that, in spite of the wounds and gaps, enclose this widespread ache, is the sign that lucidity constitutes the secret thrust of Antonio Marchetti’s nervous and creative system.

Alberto Boatto

“Sistema Nervoso”

Successivamente, le diverse culture hanno avuto cura di indicare l’epicentro dell’esistenza dell’uomo, collocandolo in luoghi molteplici e sempre differenti del corpo, nel plesso solare o nel cuore, nei lobi del cervello oppure nel pneuma, nel respiro, nel soffio polmonare. Scrivo “epicentro”nel senso eruttivo e dinamico come se scrivessi “epicentro di un terremoto”.

Si configura in tal modo una dettagliata topografia corporale, come si slarga la topografia di una città con i suoi incroci, i suoi vicoli ciechi e i suoi passaggi sotterranei.

Oggi non c’è dubbio, ciò che ci viene insistentemente indicato come il centro è il sistema nervoso, un ordinamento assieme diffuso e concentrato, disperso sino alla periferia e raccolto in più punti. Per quanto una topografia di questo tipo, significativa ed immaginaria, non possa identificarsi, oggi come nel passato, con una topografia anatomica tout court, rimane attivo fra i due un gioco di trapassi e di scambi.

Dicendo “sistema nervoso” mi immagino un centro-anatomicamente, il cervello o il midollo spinale-e un fascio di fili delicati e vibranti che si diramano in tutte le parti di un organismo animato. La vibrazione è quella delle erbe del mare o, con maggiore verosimiglianza, delle corde metalliche del pianoforte tempestate dai martelletti fasciati, molto a proposito, di pelle. Collocare l’epicentro dell’uomo nel sistema nervoso vuol dire raccogliere la vita attorno a i suoi sensi e ai suoi moti, scoprire, mettere a nudo, scarnificare, sezionare, scuoiare, esporre.

Un’operazione a cui è ignota ogni misura d’indulgenza, ma a cui appartengono i suoi opposti che recano nomi duri e accentati:i nomi di lucidità e di crudeltà. Di questo disperso universo, tutto scoperto ed esposto, Antonio Marchetti ci pone davanti una topografia monumentale. Pugni contratti, col pollice ben saldato all’indice, che si muovono fra l’iperrealismo e lo spettrale, tendono e stirano lunghi stracci neri. Proprio come i nervi dell’uomo vengono stirati e torti dalla violenza della realtà, nelle sue pressioni e nei suoi stimoli. O come un pittore stende la sua pennellata e i suoi colpi di spatola. Oggi mi sento uno straccio, non è una battuta di un personaggio di Beckett, bensì un luogo comune di ogni giorno. Ma da questo miserabilismo psicologico e autocompassionevole Marchetti ha estratto una gigantografia molto oggettiva:ha monumentalizzato una metafora attorno alle oscure reazioni dei nervi.

La vivisezione viene condotta tra il richiamo fisico della materia e l’astratta tentazione cromatica presenti nel rapporto nitido e dissonante del bianco e del nero. Le “linee di forza”, che disegnano un grande arco temporale nel percorso dell’arte moderna, si sono trasformate in nervature, in fibre, in tensioni, in spasmi. E l’eleganza che, malgrado le ferite e i vuoti, avvolge questo crampo diffuso, è il segno che la lucidità costituisce la spinta segreta del sistema nervoso e creativo di Antonio Marchetti.

Oratorio di San Sebastiano, Forlì

Virginia Cardi

Construction of Pain (text for the catalogue of the exhibition “Construction of Pain”, Ravenna Art Gallery, Santa Maria delle Croci, 1996)

Entering into the merits of Antonio Marchetti’s research, and in particular the present, leads me to add an initial consideration about the author: a difficult artist who needs to be understood in terms of the long development he has undergone and for greater attention to his matured experience and commitment to a constantly sustained coherence. Construction of Pain, pursuing meanings to which the exhibition is anchored, is a lasting commitment and a challenge that these dark times render even more deserving, aimed at an ultimate and even necessary resistance.

Pain is an indescribable experience. Marchetti’s works make the bonds, the points of erosion and the strains to which our existence is subjected, appear in a context of allusions. He entrusts this metaphor to potent presences and signs that scrutinise space with their decisive and clean forms. The laceration, the wound, like the recurrent presence of sharp pain, were already for some time the terms of that personal grammar, a pursued inspirational motive. Even the Nervous Tension work, created a year ago and part of a trilogy, was in some way already intuited in previous works. In particular, Double Bind: two faces, created in white marble, in profile, pulling at a flame-red silk drape with their mouths. Marchetti’s research, even in its variety of expressive means, is coherent and carries the weight of a choice already present at his Pescara debut in the Seventies. Faithful to his youthful love of Nordic expressionism, whose contrasting tones and pure colours he had assumed from the start, Marchetti privileges pitiless spikes and the leap of signs that have, since then, already established his extremely recognisable style. Frequenting the Lucrezia Di Domizio and Mario Pieroni Galleries in Pescara during those years, on the other hand, was a moment of formation. In that extraordinary accumulation of material and conceptual experiences, new inspirations were born. The masters to whom he looked were, without doubt, Beuys, Pistoletti and Kounellis.

The basic ideas to which he linked himself are, in part, theoretical: an ideological art aimed at profoundly re-discussing the human and the social but within a poetic full of vitality, in which elegance and play, even in experimentation, remain supporting figures. As background, therefore, a certain expressionist avant-garde, Duchampian suggestions and the crucial elements of the aesthetics of the Seventies. Not less characterising, his reading: Bataille, Junger and Cioran, difficult, contradictory authors, some of which became the point of departure of a debate that Marchetti gave voice to during the direction of the Stilo review, an art album of unpublished work and conversations.

All this can be found again today, in a phase of maturity and maintenance of elaborated experience and in an able and knowledgeable ability to articulate languages. But, returning to the exhibition, and taking into examination these works that are entitled Pesanervi (Nerve Weights), where if, on one hand, the warm breath of Artaud leads the artist to reflect once more on that tragic pain machine that is the body, constantly present for some time in his research, and aimed at interweaving epidermis, cracks and veining to discover points of resistance; on the other hand, the memory of the Duchampian mechanical device, which has also inspired Marchetti in the past. Celibate machine the former, single machine the latter, wanting to join to the present, some of the experiences of the second half of the Eighties, that had identified an original range of expressions in the idea of the Single. So, the Single, a dense and allusive term of autonomy, a certain radical theme, at the same time pure form and lost object, crossed by a healthy and a slightly cruel narcissism, now opens the door to a more articulated composition.

The idea of construction in space, of architecture, is created by thinking about the work as an original project. Constructing is a committed action, because it strips us, it makes us come out into the open; and in this it is rooted to a fundamental experience: pain. Understood as an expanding, meta-historical, but also immediate, acceptance. The work opens in an existential space and pain becomes the central moment of consciousness of reality. In accepting this condition, the cardinal idea in contemporary thought, one might think, disenchanted, of the loss of construction. The Heideggerian theme of the discarded being and the extraordinary image of the Angelus Novus, where Benjamin sees in the fall the chance of redemption, are the guiding ideas of this exhibition. On the other hand, Marchetti has elaborated these themes and made them his own, by also studying Hebrew mysticism. But the artist seem to want to tell us that pain is also something else, the proof of our ability to feel, of being alive.

Junger wrote: The flowers that grow in the cracks of death do not fade in our eyes.



Oratorio di San Sebastiano, Forlì
Virginia Cardi

“Costruzione del dolore”
(testo per il catalogo della mostra “Costruzione del dolore”, Pinacoteca di Ravenna, Santa Maria delle Croci, 1996)

Entrare nel merito della ricerca di Antonio Marchetti, in particolare di quella attuale, mi induce ad una considerazione iniziale sull’autore:un artista difficile, che ha bisogno di essere inteso nel lungo percorso che ha compiuto e restituito ad una attenzione più approfondita, per le esperienze maturate e per l’impegno di una coerenza sempre sostenuta. Costruzione del dolore, inseguendo dei significati a cui la mostra si àncora, è un impegno alla durata, é una sfida, che questi tempi bui rendono più meritevoli, tesa ad una resistenza ultimativa e pur necessaria.

Il dolore è un’esperienza indicibile. L’opera di Marchetti fa apparire, in una trama di allusioni, i crinali, i punti di erosione, gli strappi, cui è sottoposta la nostra esistenza;affida questa metafora a presenze e segni forti, che scandiscono lo spazio con le loro forme decise e pulite. La lacerazione, la ferita, come la presenza ricorrente della punta erano già da tempo i termini di una grammatica personale dell’artista, un motivo ispiratore perseguito. Anche il lavoro Tensione Nervosa, realizzato un anno fa e parte di una trilogia, era in qualche modo già intuito in opere precedenti;in particolare ricordo Doppio Legame:due volti, realizzato in marmo bianco, di profilo, tiravano con la bocca un drappo di seta rosso fuoco. La ricerca di Marchetti, pur nella sua varietà di mezzi espressivi, é coerente e porta il peso di scelte già presenti fin dai suoi esordi pescaresi negli anni settanta. Fedele ad un innamoramento giovanile per l’espressionismo nordico, di cui assume, fin dall’inizio i toni contrastati, i colori puri, Marchetti predilige le spigolature impietose, le impennate del segno che fissano già da allora uno stile riconoscibilissimo. Momento di formazione furono, d’altronde, sempre in quegli anni le frequentazioni pescaresi nelle gallerie di Lucrezia Di Domizio e di Mario Pieroni. Nascono in quella straordinaria congerie di esperienze materiche e concettuali nuove ispirazioni. I maestri a cui guardare, non vi é dubbio, sono Beuys, Pistoletto, Kounellis.

Le idee di fondo a cui legarsi sono da una parte teoriche:un’arte ideologica, tesa a ridiscutere in modo profondo l’umano e il sociale ma all’interno di poetiche piene di vitalismo, in cui l’eleganza e il gioco, pur nella sperimentazione, rimangono una cifra portante. Da retroterra, dunque, una certa avanguardia espressionista, suggestioni duchampiane e i punti cruciali dell’estetica degli anni settanta. Non meno caratterizzate sono le letture:Bataille, Junger, Cioran, autori difficili, contraddittori;alcuni dei quali divengono il momento di partenza di un dibattito che Marchetti articola nel corso della direzione della rivista Stilo, album d’arte di inediti e di conversazioni.

Tutto questo si ritrova oggi; in una fase di maturità e di tenuta delle esperienze elaborate, in una abile e consapevole capacità di articolare i linguaggi. Ma torniamo alla mostra e prendiamo in esame quelle opere che prendono il titolo Pesanervi. Dove se da un lato il fiato caldo di Artaud riconduce l’artista a riflettere su quella tragica macchina del dolore che é il corpo, molto presente da tempo nella sua ricerca, tutta volta a intessere epidermidi, crepe, venature, a individuare punti di resistenza;dall’altro é anche molto riconoscibile la memoria duchampiana del congegno meccanico, a cui Marchetti si é ispirato anche nel passato. Macchina celibe, la prima, macchina single la seconda, volendo saldare alle attuali alcune delle esperienze della seconda parte degli anni ottanta, che avevano individuato nell’idea del Single una originale gamma di espressioni. Dunque, il Single, termine denso e allusivo di autonomia, una certa radicalità, al contempo forma pura, oggetto spaesato, attraversato da un sano e un po’ crudele narcisismo, ora apre le porte ad un comporre più articolato.

L’idea di costruzione dello spazio, di architettura nasce da un pensare all’opera come progetto originario. Costruire é un’azione impegnativa, poiché ci denuda, ci fa uscire allo scoperto;ed in questo essa si radica ad un fondamento:il dolore. Inteso in un’accezione dilatabile, metastorica, ma anche attuale. L’opera apre ad uno spazio esistenziale e il dolore come momento di conoscenza della realtà diventa centrale. Nell’accettazione di questa condizione, idea cardine nel pensiero della contemporaneità, si può pensare, nel disincanto, nella perdita alla costruzione. Il tema heideggeriano dell’essere gettato, l’immagine di straordinaria potenza dell’Angelus Novus, dove Benjamin fissava nella caduta la chance di un riscatto, sono idee conduttrici di questa mostra. D’altro canto Marchetti ha elaborato e fatto suoi questi temi, anche attraverso lo studio della mistica ebraica. Ma il dolore é anche qualche cosa d’altro, pare volerci indicare l’artista, é anche la prova del nostro sentire, del nostro essere vivi.

Scrive Jünger: I fiori che crescono sulle crepe della morte non impallidiscono ai nostri occhi.


Cervia, Magazzini del sale. Photo Marco Minoliti

Giacinto Di Pietrantonio ad Antonio Marchetti

(courtesy Cesare Manzo. Testo per il catalogo della mostra “Pesanervi”, Pescara, Galleria Cesare Manzo,1994)

Caro Antonio,
Siamo arrivati ad un altro appuntamento del nostro pluriennale rapporto in cui ci scambiamo idee, osservazioni, riflessioni, immagini, forme senza formalismi, momenti in cui accettiamo un confronto e ci mettiamo in discussione sempre alla ricerca di quello che chiamiamo un nuovo mattino. Ma, mai come ora questo mattino sembra essere così minacciato, assediato dalla realtà, dagli ultimi avvenimenti e non solo italiani, dalle tensioni che sconvolgono il mondo, lo cambiano, lo mutano, lo trasformano nel bene e nel male.
Una volta noi sapevamo, o meglio, credevamo di sapere dove questa separazione, questa ferita si apriva, ora non ne siamo più sicuri e le tensioni che animano il mondo non sono quelle collettive, ma anche quelle che ognuno di noi vive quotidianamente, ciò che appunta ogni giorno nel diario dell’esistenza. Non lo sappiamo, perchè sono certo scomparse le certezze, ma anche i simboli che le rappresentavano, ad esempio gli angeli e i diavoli, figure, immagini che al di là del valore davano una forma all’invisibilità dell’immaginario.

Ravenna, Santa Maria delle Croci

Perché oggi non siamo più capaci di queste immaginazioni?
Pensa che bello sarebbe se riuscissimo ancora a vederli, a come sarebbe figurativamente trasfigurata la realtà se fossimo capaci di vedere questi personaggi con grandi ali bianche, capelli dorati e corpi lucenti e gli altri con ali rosse e corpi verdi saltellare tra di noi, l’immagine delle tensioni della realtà ne uscirebbe rafforzata dalla potenza della visione anziché dalla omologazione della televisione. Con questo, difatti, abbiamo rinunciato a ricercare l’immortalità dell’anima e del corpo, accontentandoci di allungare l’età media della vita, abbiamo rinunciato a vivere mille, duemila, ventimila anni e più.
Ma perché tutto questo?
Perché ci siamo sempre più modernamente consegnati alla cronaca, perché abbiamo sempre più dato valore al presente, perché abbiamo rinunciato al passato e al futuro, alla notte e al nuovo mattino in favore del giorno. Noi abbiamo bisogno di miti, leggende, epica che l’arte forse ci può ancora dare ed è per questo che uno sparuto gruppo di persone, artisti, critici, galleristi, etc. resistono ancora nel darsi da fare perché l’arte sopravviva, perché abbia ancora una espressione, una lettura, una casa. E’ per questo che la riserva dell’arte resiste allo stesso modo degli eretici medievali che a tutti i costi tenevano duro nel conservare una visione del mondo diversa seppur minoritaria. Sì, non va nascosto che siamo una minoranza, ma va anche detto che in questa minoranza batte un cuore, il cuore segreto del mondo. Difatti, è di questi giorni il riacuirsi del dibattito intorno alla necessità dell’opera d’arte e dell’arte più in generale, ma in effetti è la questione cruciale di questo secolo, da quando si è andata sempre più marginalizzando, da quando si è mostrata sempre più lontana dalla realtà, perchè non più simbolica di questa e del potere che la rappresenta.
Ma la domanda ulteriore è: siamo sicuri che l’arte è qui dove la cerchiamo, o non sia migrata da un’altra parte?
La risposta è più facile di quanto sembri, perchè l’arte è lì dove ci indicano gli artisti.
Allora queste tue opere, le due che esponi e le altre che tieni nel segreto dello studio sono portatrici di tutto questo e in che modo?
Semplicemente con la loro tensione formale. Mi pare, infatti, che in esse, nei pugni che tirano gli stracci occupando la parete e nel grande cono che ingombra lo spazio, il comun denominatore, se si può ancora usare questa parola in un periodo di particolarismi, è proprio l’espressione dell’intensità della tensione, dell’energia che passa in un’opera. Difatti, non le mani, ma i pugni chiusi tutti diversi esprimono una concentrazione anatomica della potenza di un corpo avvolto, la trasformazione di un membro del corpo da un elemento di pace, la mano aperta, ad uno di guerra, il pugno; di un’anatomia che passa dalla quiete al moto. Ma non potendo più distinguere tra il bene e il male, un pugno che tiene uno straccio è anche una mano chiusa che si aggrappa e che tirando cerca di salvare qualcosa o qualcuno, come è testimoniato da una serie di mani-chiuse-pugni che si stringono formando una rete umana di solidarietà che segna il muro e crea immagine. Allo stesso modo il cono che ingombra, che occupa, che ostruisce lo spazio, ci angoscia, sbarrandoci la strada, ma dà anche una nuova configurazione, crea un nuovo confine, ci prospetta un diverso uso dello spazio che non avevamo finora notato. Ecco, a questo serve l’arte: a metterci a tu per tu con delle nuove visioni in alternativa alle televisioni.
Un affettuoso saluto.
Giacinto

"Pesanervi"

Vecchia pescheria, Pesaro

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