Maggio 30th, 2012 § § permalink
RAVENNA 2019
Ravenna Capitale Europea della Cultura.
“A mare aperto”, 19 novembre 2011, Artificierie Almagià.
http://www.ravennawebtv.it/w/?p=29694
L’opera installativa “Maeltröm” è stata pensata e realizzata appositamente per l’incontro del 19 novembre all’Almagià. È quasi una scenografia teatrale, allestita sul pavimento dell’ex magazzino dello zolfo. Ho cercato di tradurre visivamente le suggestioni del tema, fornitemi tra l’altro da alcune conversazioni fatte con Franco Masotti. La memoria va sicuramente al famoso racconto di Edgard Allan Poe, “Una discesa nel Maelström”. Naturalmente, questi spettacolari vortici marini assumono l’aspetto di una metafora contemporanea. Spesso i gorghi si formano in prossimità della riva, quando le imbarcazioni sono quasi prossimi alla terra. Un portolano della contemporaneità deve sempre tener conto anche di questo. Il naufragio è sempre possibile, al di là di ferree certezze.
Antonio Marchetti
.
Gorgo. Il progetto
.
Maelström
.
Gorgo part.1
.
invito almagià
.
Maelström
.
"A mare aperto"
Dicembre 8th, 2011 § § permalink
.
Antonio Marchetti, Abbecedario: C
In una delle nostre conversazioni mentre preparavamo la mostra riminese per le celebrazioni dell’anno galileiano (2009), Antonio Marchetti lanciò l’idea di un’altra mostra, da allestire nelle sale antiche della Biblioteca Gambalunga, intitolata “Come ho dipinto alcuni miei libri”. Col titolo intendeva richiamare, con minimo adattamento, lo scritterello di Raymond Roussel Comment j’ai écrit certains de mes livres, dove l’autore svelava post mortem la natura artificiale e combinatoria di certe sue opere. Marchetti e gli amici Maurizio Giuseppucci e Franco Pozzi avrebbero esposto le loro creazioni artistiche intorno a opere e autori risultati importanti nella formazione loro e della loro generazione.
Il progetto, discusso con la Direzione, è subito piaciuto ed è stato accolto tra le iniziative del nostro Istituto. Era infatti in linea con l’attività di promozione del libro e della lettura che la Gambalunga è andata sviluppando e diversificando negli ultimi anni. Come pure costituiva un’ulteriore incursione nel mondo delle arti visive ambientata nel cuore antico della Biblioteca, dopo le felici esperienze della mostra fotografica sulla colonia Novarese dell’artista tedesca Andrea Frank (2001) e dell’esposizione delle tele di Miria Malandri dedicate all’immagine delle biblioteche e dei bibliotecari nei film (2001).
In seguito la compagnia si è allargata con l’ingresso di Leonardo Sonnoli, autore del progetto grafico del catalogo della mostra, e di Annamaria Bernucci, critica d’arte. E a poco a poco, in una sorta di operazione maieutica collettiva sotto la regia di Marchetti, si sono precisati i temi su cui gli artisti avrebbero lavorato, sono stati assegnati gli spazi espositivi distinguendone uno comune (sala del ‘700) e uno personale (sale del ‘600), e si è deciso di accostare alle loro opere materiali della Gambalunga in base a relazioni di tipo formale o concettuale. Si è venuta così definendo una mostra che non trovasse nelle sale antiche solo uno sfondo di particolare suggestione, ma riuscisse a far dialogare, in una messa in scena ben orchestrata, le creazioni degli artisti intorno a libri e talora in forma di libri con i volumi circostanti, colti nella loro duplice natura di oggetti materiali e prodotti intellettuali. Questo rimbalzare tra epoche diverse avrebbe anche suggerito il senso di continuità – sia pure una continuità tutt’altro che lineare – della nostra cultura, quasi a significare che in fondo nulla è più antico del moderno, inteso come momento di confluenza e sedimentazione di elaborazioni, riflessioni, teorizzazioni, negazioni e riabilitazioni operate dall’uomo nel corso del tempo, e quindi come punto di approdo di una lunga tradizione.
Così le nove scatole dello scompleto alfabeto di Marchetti, ciascuna depositaria di un gioco linguistico e figurato ricco di suggestioni e significati, sono state accostate a tre raffinate raccoltine di iniziali figurate e ornate, grottesche e monogrammi attribuite al bolognese Rodomonte Giordi, maestro “d’abaco” a Faenza, a suo tempo utilizzate per la riproduzione a spolvero (Sc-Ms. 1153-1155, inizi XVII secolo). Ai taccuini dedicati dal medesimo artista agli autori prediletti del ‘900 e posti a girotondo intorno all’imponente badalone nella terza sala seicentesca, sono stati accompagnati volumi che toccano alcuni dei temi suggeriti dai suoi autori: dalla Relazione del contagio stato in Firenze L’Anno 1630. e 1633. Coll’aggiunta del Catalogo di tutte le pestilenze più celebri … (Firenze 1714) alle Opera minora anatomica di Albrecht von Haller (Losanna 1763-1768), e a I discorsi ne i sei libri di Pedacio Dioscoride Anazarbeo della materia medicinale di Pietro Andrea Mattioli (Venezia 1559).
.
Antonio Marchetti, Abbecedario
Giuseppucci ha legato il suo album, elegante e inquietante raccolta di immagini di mosche carnarie e brani da Una solitudine troppo rumorosa di Bohumil Hrabal, a una tavola con gigantesca pulce (essa pure succhiatrice di sangue) del sesto volume delle Planches (Lucca 1770) di quel compendio universale dello scibile umano che è l’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, per molti versi manifesto dell’Illuminismo. Associa invece la piccola foto incorniciata raffigurante una massa di libri su esile tavolino con gomma a forma di teschio sovrapposta, a una citazione da Il libro della sovversione non sospetta di Edmond Jabès, a un Indice dei libri proibiti (Roma 1596) e a un testo espurgato del De institutione oratoria di Quintiliano con commento (Venezia 1567). Con mirabile sintesi, Giuseppucci spalanca un universo di significati ben presenti a chi pratica i “mestieri del libro”: la cultura occidentale ha nel libro la forma privilegiata di espressione e trasmissione; i libri sono conservati in quei grandi depositi organizzati che sono le biblioteche, che ne assicurano la fruizione pubblica e la sopravvivenza nel tempo; la biblioteca è quindi il luogo della memoria, passata e presente, memoria da trasmettere oppure da occultare e distruggere. A un sentire comune che considera libro e biblioteca presìdi di civiltà si oppone infatti ogni forma di integralismo, sia laico sia religioso, che punta sempre e comunque al rigido controllo della produzione editoriale, cedendo talora – come insegna la storia anche recente – alla tentazione dei roghi di libri: il libro, come simbolo della libertà di opinione e di espressione, va annientato. Ma il libro può anche essere più banalmente ma altrettanto efficacemente insidiato dall’azione silenziosa e inesorabile di insetti e microrganismi, qui rappresentati dallepisma saccharina, meglio noto come pesciolino d’argento, che si muove febbrilmente su un minuscolo video dentro un cassettino con schede della libreria seicentesca.
.
Antonio Marchetti: Il libro circolare
Franco Pozzi propone una delle sue suggestive installazione di farfalle in chiave di discreto omaggio a Piero Meldini, già bibliotecario della Gambalunga, che nel suo romanzo L’antidoto della malinconia racconta il prodigio di un immane sciame di farfalle che compare sulla facciata della cattedrale, lasciando dietro di sé una pozza di sangue. L’intenzione dell’artista è suggerita dall’attigua esposizione del terzo tomo dei Diari di Giacomo Antonio Pedroni (Sc-Ms. 211), fonte dell’episodio avvenuto a Rimini nel giugno 1623, e dell’Antidoto de’ malinconici di Giuseppe Malatesta Garuffi, bibliotecario della Gambalunga alla fine del Seicento, fonte del titolo di Meldini. Ai suoi originali disegni a pochoir su vetro montato a cassetta, realizzati schermando la luce con la polvere sedimentata e leggibili se colpiti da fonte luminosa, Pozzi lega con accostamento quanto mai calzante l’Ars magna Lucis et Umbrae (Roma 1646) del genio enciclopedico Athanasius Kircher, un trattato sulla luce in relazione dialettica con l’oscurità.
A conclusione di questa rapida rassegna della mostra svolta dalla parte dei libri, non posso non sottolineare che Marchetti, Giuseppucci e Pozzi, in dialogo costante con la scrivente, hanno saputo trarre dalle raccolte della Gambalunga pezzi capaci di assecondare ed esaltare le loro infinite sollecitazioni.
Paola Delbianco
.
Franco Pozzi
,
L’arte di questi tempi tende a dare forma e spessore a processi sempre più invisibili. Anzi, l’impalpabilità della produzione artistica contemporanea sembra raggiungere un apice nell’era internettiana. Le opere sono informate e costruite sulla ‘costola’ di altre immagini, gli oggetti non sono più o soltanto ‘primari’, cioè prodotti dalla manipolazione dell’artista, ma conseguenti a una elaborazione di repertori di forme e di stili e di media diversi. L’idea di ‘rimaterializzare’ un oggetto che tra l’altro vive seri rischi di estinzione, il libro, quale strumento di esperienza e conoscenza (con buona pace degli e-book che traslano pregi e difetti della lettura cartacea) e di creare un arcipelago di memorie visive e sensoriali ha coivolto Antonio Marchetti, Maurizio Giuseppucci e Franco Pozzi in un dialogo a più voci con l’antica biblioteca gambalunghiana. Generando un esclusivo memora-biblia dove la scrittura si trasforma in un inedito deposito di immagini.
La percezione che se ne ricava è quella di un ciclo narrativo, dissimulato tra i dorsi pergamanecei degli antichi tomi e delle teche lignee, frutto di una situazione registica fruttuosamente concertata.
Un contesto ‘deittico’, nel senso di fisico e avvolgente, che diviene fondamentale per la comprensione degli interventi, insinuati all’interno degli spazi e dei recessi della biblioteca. La quale sconfina, si dilata, diviene un ponte, o meglio un ‘arcobaleno di parole’, proiettato per il futuro come direbbe Bodei. Gli artisti rivelano un profilo anfibio di lettori sagaci e di interpreti altrettanto colti, capaci cioè di posare lo sguardo su brani di memoria e concedersi l’atto di rammerorare fonti e citazioni letterarie quanto visive.Qui i libri divengono protesi intellettuali dei loro apparati percettivi ed emotivi. Del resto la lettura è sempre un dialogo (o una interrogazione) che paradossalmente si fa con un autore o più autori scomparsi magari da secoli. E su questo esercizio ontologico, sullo stupore che genera, sulla conoscenza che innesca e che prolunga l’esperienza intellettuale si sono misurati.
La lettura è anche un’arena dove l’artista e lo scrittore possono mettere insieme, a distanza, un dramma, una piêce, un esercizio mnemotecnico, un gioco di fantasia, dove si costruisce un atto di secessione e al tempo stesso un gesto di relazione molto più profondo di quanto il leggere stesso come modalità individuale non lasci trapelare. Leggere è un atto ‘diversamente’ riflessivo in relazione al nuovo paesaggio dei media, esploso in un ecosistema dove tutto viaggia. Al contario il mondo dei libri è costruito da narrazioni lineari, è fondato piuttosto sulla immaginazione del lettore che si esercita o si dilata sul testo.
Gli artisti sembrano interrogarsi. Cosa diventa la memoria, quella trasmessa dai libri nell’epoca della rete, nel tempo dell’iperpresente nel quale tutte le informazioni sono accessibili contestualmente? Proprio quando molti postulano uno stallo purgatoriale della carta e dei libri poichè il dinamismo di internet (che è la sua dote più forte) abbassa la soglia della pubblicabilità di qualsiasi pensiero, Marchetti, Giuseppucci e Pozzi, da quella speciale specola sul mondo che è la biblioteca, da lettori diventuti officianti, si sono dati una memoria selettiva, usando un filtro sull’arte della dimenticanza. Non alimentano gli spauracchi; anzi, dalla densità e fecondità della parola scritta hanno generato immagini in modo consapevole.
Il loro è un nostòs, direbbe qualcuno. Ma i conti li han dovuti pareggiare lo stesso. Con oblio, fuoco, usura, fatali consorti che accompagnano secolarmente le vicende di biblioteche e di libri. Si aggiunga anche la categoria degli insetti infestanti.
LA VERTIGINE DELLA MESCOLANZA
Nel loro essere oggetti, visivi, tattili, opere aperte, i libri sono amati anche per la forma e la materia, il loro possesso divenire ossessione. Lo sanno bene i bibliofili perversi, come li chiama Umberto Eco, quando tastano carte crocchianti e odorose, e quando si accaniscono feticisticamente esercitando il principio dell’accumulo e della reliquia. Libri come inseparabili protesi di sé, detonatori di un ‘atto di pietà’, di desiderio e devozione che è il collezionare. Marchetti ha dato vita ad una speciale collezione, ad estratti di una sua memoria che si fa autobiografica e filosofica. Trovano posto libri dimenticati, cancellati dallo zelo di un bibliotecario ossequiente, libri dispersi nell’abbondanza, che è come dire smarriti nel rumoroso esercizio della produzione, scaduti a genere non più letterario, ma editoriale e merceologico in mano ai risoluti esperti up- to- date di oggi, libri smarriti nei meandri dei cataloghi, libri esauriti, libri censurati.
La scrittura è immagine, forse, paradossalmente è sempre immagine, anche se il modello concettuale, da Aristotile in poi, considera la scrittura uno straordinario artificio per la rappresentazione della lingua parlata. Antonio Marchetti è guidato da uno spirito sottile e ironico e possiede la consapevolezza di molteplici codici linguistici. Così si è scoperto una tempra archivistica (che forse appartiene più a bibliotecari o a entomologi) e ha selezionato e elencato una sua lista di autori magni sapendo bene quanto il tema della lista sia frequentato e affaticante, oggi.
Ha dato vita ad un suo abbecedario figurato (l’alfabeto è la prima lista che apprendiamo) per il piacere dell’enumerazione, attraverso il quale conduce l’osservatore a prendere parte, con disposizione curiosa, alla decifrazione di un ludus linguistico e figurato. Un gioco che sottosta a piccole e ripetute regole che Marchetti è andato componendo in nove dodici ‘scatole’. Non manca una componente analitica, sub vitro, da entomologo rigoroso: così in ognuna delle scatole-gioco trovano disposizione tanto un abile esercizio di calligrafismo quanto un rimando lessicale, l’objet trouvė, la lettera decorata, in una sinestesia di parole e immagini.
Alla complessità delle relazioni interne corrisponde una apertura di significati enigmatici. Che sia l’ennesima metafora della biblioteca, come organismo complesso, dalle molteplici facce, come un ipertesto? Ma il suo abbecedario diviene anche una tastiera che fa risuonare suoni molteplici. Un fluttuare di voci: dentro, il piacere dell’aforismo, gli echi di scritture automatiche, onomatopeiche, sotteso omaggio a quel Raymond Roussel, uno dei padri riscoperti della letteratura combinatoria.
Per dirla con Czeslaw Milosz, anche questo di Marchetti è un Abbecedario che “nasce in luogo di un romanzo, in luogo di un saggio sul Novecento, in luogo di un libro di memorie”.
LA NOZIONE DELLA PERDITA
Un testo è un’ospite del tempo del lettore. Può allignare e crescere, essere estirpato, dilatarsi sino a ramificare come una pianta, un testo può divenire atto di libertà in un contesto come il presente così avaro di ‘parole d’ordine’ epocali e così pieno di relitti ideologici. Nella lettura ospitale di Maurizio Giuseppucci il rapporto tra la parola e l’immagine è una componente primaria.
Egli parte da una sponda concettuale, ma l’approdo è complesso perchè sempre dissimulato, non ama rivelare la rotta, anzi lascia aperta la percorribilità a molteplici valori semantici attraverso il potere che hanno le sue immagini di dilatare il senso e i testi.
Il libro in quanto ‘oggetto e forma’ appartiene al suo personale status, gli è congeniale per formazione ed educazione. I suoi racconti fotografici non dissipano il legame con la parola scritta, né tanto meno i legami con l’autore di riferimento, amplificano o creano complicità inaspettate. Diventano dispositivi aperti, le pagine scorrono con la stessa velocità di un fotogramma, hanno la condensazione di un frame. Acetati e lucidi trasparenti o colorati fanno da diaframma, isolano tra loro le immagini componendo una lunga sequenza.
L’operare di Giuseppucci esprime il tempo poroso e proteiforme attuale fatto di voci solitarie e di figure di intellettuali (mutati o mutanti come avrebbe detto Pasolini) nei quali la stessa generazione cui appartiene l’artista si identifica. Generazione che ha saputo guardare i grandi maestri del secolo trascorso, ma che si è cucita addosso un abito diverso, di abili combinatori di media.
Ciò che preme è l’identità celata nelle immagini, specie quelle ibride e babeliche della contemporaneità. La modalità è quella del prelievo dal reale, mimetizzando significati e relazioni, realizzando un montaggio già ‘informato’ da altri. C’è ad esempio una fotografia, agglutinazione di oggetti e immagini pre-esistenti. Poco importa sapere che nella ‘messa in scena’ figura una piccola gomma per cancellare a forma di teschio (gadget di un museo) e che l’immagine che le fa da sfondo, che già allude a catastrofiche esondazioni, è la testimonianza visiva di una performance dell’artista Roman Signer. Ciò che conta è il risultato ottenuto governato da un preciso intento che dà luogo a slittamenti (temporali), a spaesamenti (di significati) a una corrispondenza simbolica che va dalla vanitas a precisi richiami iconografici.
L’immagine suggerisce anche il concetto della cancellazione e della perdita; evoca le ondate di biblioclastia che da sempre hanno investito la storia di libri e biblioteche. Ecco ancora: l’Indice dei libri proibiti. Esso sta ai roghi, come l’azione corrosiva dell’inchiostro sulla carta corrisponde ai fori (simili ad uno spolvero) tratteggiati dall’artista lungo i bordi delle sue figure.
Giuseppucci ama spesso accostare tra loro immagini vintage; Giuseppucci ama creare rapporti passato-presente. Mette in relazione in questo cortocircuito temporale, campioni di pensiero progressivo come Diderot e Gramsci, pionieri della cultura universale e sociale, gli araldi moderni dell’idea di educazione e di diffusione del sapere. Giuseppucci ha espresso anche con leggerezza pensosa il paradosso della durata e della deperibilità. L’insidia è sulla pagina, pronta. Su una delle stupefacenti tavole incise dell’Enciclopedie (un esemplare all’acquaforte da Bartolomeo Nenci) si materializza un pesciolino d’argento (il lucifugo Lepisma saccharina). Un altro simbolico assedio. Metafora dell’azione parassitaria tante volte messa in atto con strumenti di ben altra pervasività, capaci di intaccare alla radice i presupposti sulla quale è cresciuta la stessa Enciclopedie, cioè “i principi della biblioteca universale o meglio della universalità della conoscenza”.
LETTURE ALCHEMICHE
Franco Pozzi è alfiere di immagini leggere, sulfuree e dissolvibili. Come nel caso delle farfalle maculate fuggite come sciame incontrollato dalle pagine del romanzo concepito all’interno di questa biblioteca (L’antidoto della malinconia di Piero Meldini). Si posano nell’ambiente crepuscolare che le ha generate e rifuggono la luce. Eppure sono fatte di luce “chimica”, le loro nervature alari sono trame di chiarori simmetrici realizzate con carte veline acidate ad arte: sfidano il tempo e la materia, create da una metamorfosi artificiale e come tutte le farfalle chiudono le ali a libro, in posizione di riposo. Pozzi è attratto dalla malia delle scritture palindrome che, come le simmetrie delle ali delle sue farfalle, sembra mettere ordine nel caos della vita. Ma possono infrangere gli stessi codici della lingua scritta ed essere illuminanti per capire le sfumature dell’esistenza.
Fatale che Pozzi si sia imbattuto nel Kircher dell’Ars magna lucis et umbrae cioè a dire l’autore dotato di barocca bulimia scientifica, cacciatore del meraviglioso, così surrealista da farsi adottare da una nutrita schiera di surrealisti novecenteschi affaccendati a trovare progenitori esemplari. Come nel “pantomorfo teatro della natura” kircheiano, Pozzi si muove stringendo un risarcimento con il mondo naturale e qualche debito con l’ammirato J.Beuys. Del resto lungamente la scrittura ha poggiato sull’invenzione e l’utilizzo di uno strumento vegetale come la carta. Così Pozzi ha ‘vergato’ il nome di Antonin Artaud, arabescando una scrittura fatta di aculei, composta di spine di robinia, infrangendo i valori simbolici, le spine sono associate al martirio cristologico, ma qui in piena antifrasi, sono destinate ad un campione della blasfemia.
In un riscatto ‘retinico’, cioè visivo con i libri e i loro autori, Pozzi mette in atto costantemente una metafora alchemica che passa attraverso lo strumento della luce. Espressione delle tensioni liberatorie della psiche più che desiderio di liberarsi delle forme statiche e plastiche, Pozzi dà accesso alle cose attraverso una fonte luminosa, ma è al contempo anche un fine osservatore d’ombre, sciaterico, perchè soprattutto le ombre sanno essere rivelatrici.
Annamaria Bernucci
.
Catalogo Sonnoli & Bacchi
.
La lezione del bibliotecario
Scritto nel 1941 a Mar della Plata e pubblicato nel 1944, nella prima edizione di Finzioni, La biblioteca di Babele è uno dei più memorabili e probabilmente il più famoso dei racconti di Borges. L’universo parallelo in cui lo scrittore ci introduce è una sterminata biblioteca; un immane alveare costituito da «un numero indefinito, e forse infinito» di celle di forma esagonale. Tutti i lati di ciascuna cella, meno uno, sono tappezzati di scaffali. Il lato non scaffalato immette in un angusto corridoio che congiunge la cella con altre celle, perfettamente identiche. Ogni parete contiene cinque scaffali. Ogni scaffale trentadue libri di uguale formato. Ogni libro consta di quattrocentodieci pagine di quaranta righe. Ogni riga è composta di quaranta caratteri. Le celle ospitano, dunque, ottocento libri ciascuna, per complessive 328 000 pagine e 524 800 000 caratteri.
I libri dell’universo-biblioteca sono non soltanto incomprensibili, ma privi di senso. In qualche pagina può talora celarsi una parola o – evento eccezionale – una frase intelligibile. Come scrive Borges: «Per una riga ragionevole, per una notizia corretta, vi sono leghe di insensate cacofonie, di farragini verbali e di incoerenze». La generale insensatezza dei libri è strutturale e discende dal fatto che la biblioteca è totale. I libri, cioè, registrano tutte le possibili combinazioni di venticinque segni: le ventidue lettere dell’alfabeto, il punto, la virgola e la spaziatura. Il numero delle combinazioni, benché spaventosamente alto (temo si tratti di qualcosa come venticinque elevato alla 656 000a potenza), è finito. Ne consegue che la biblioteca contiene tutto ciò che è stato, sarà e potrebbe essere scritto: «la storia minuziosa dell’avvenire, le autobiografie degli arcangeli, il catalogo fedele delle biblioteca, migliaia e migliaia di cataloghi falsi, il resoconto veridico della tua morte, la traduzione di ogni libro in tutte le lingue». Uno degli innumerevoli volumi della biblioteca conterrà dunque anche questo testo; un altro la sua traduzione in lituano; un terzo la sua versione speculare, leggibile da destra a sinistra.
La metafora dell’universo come libro – o come biblioteca – è anteriore a Borges e un suo saggio del 1951, Del culto dei libri, raccolto in Altre inquisizioni, ce ne svela la genesi. San Bonaventura, nel Breviloquium, affermò che Dio è autore di due libri: la Sacra Scrittura e l’universo. Lo stesso ripeterà Francis Bacon tre secoli dopo, e aggiungerà che come le lettere dell’alfabeto compongono la Bibbia, così esiste un numero limitato di proprietà (peso, densità, temperatura, eccetera) che costituiscono l’abecedarium naturae. Thomas Brown, in Religio medici (1642), riconfermerà che vi sono due libri ai quali possiamo attingere: la Sacra Scrittura e «quell’universale e pubblico manoscritto» che è la natura. Nelle opere di Galileo, infine, compare ripetutamente la metafora del «gran libro dell’universo».
Fonte più vicina a Borges, e più diretta, è Kurd Lasswitz, a cui si accenna in un altro luogo di Altre inquisizioni. Questo oscuro personaggio, nato a Breslau, in Polonia, nel 1848 e morto nel 1910, fu scrittore e filosofo. Pubblicò uno dei primi romanzi di fantascienza ambientati su Marte, Auf zwei Planeten (1897), e il romanzo utopico Aspira (1904). Apparterrebbe a Lasswitz l’«opprimente fantasia di una biblioteca universale che registrasse tutte le varianti dei venti e più simboli ortografici, ossia quanto è dato esprimere in tutte le lingue». Integralmente borgesiana, e non meno oppressiva, è l’evoluzione della biblioteca totale di Lasswitz nell’universo-biblioteca.
La metafora dell’universo come libro era servita a Bacone, Brown e Galileo per affermare la razionalità del mondo e la sua intelligibilità da parte dell’uomo, poiché entrambi – il mondo e l’uomo – sono opera e immagine del Creatore. La stessa metafora è ripresa da Borges per insinuare l’esatto contrario, ossia che l’universo è ordinato solo in apparenza. In realtà è caotico, assurdo e incomprensibile, proprio come una biblioteca i cui libri siano, nella loro quasi totalità, privi di senso.
Sviluppo narrativo di una questione di metafisica e variante del classico tema borgesiano del labirinto, la biblioteca di Babele è per l’appunto, al pari del labirinto, «un evidente simbolo della perplessità»: quello sgomento per l’opacità del mondo e dell’esistenza che – come Borges ha rievocato in un’intervista a M.A. Vazquez – «mi ha accompagnato durante tutta la vita e fa sì che molte delle mie stesse azioni mi siano inesplicabili».
Di un buon numero di scrittori si può dire che la loro vita ha coinciso con la loro bibliografia, tanto è stata povera di fatti. Di Borges è più giusto dire che ha coinciso con le sue letture. Arrivò a dichiarare, senz’ombra di civetteria, che era più fiero dei libri che aveva letto che di quelli che aveva scritto. Autore assolutamente aristocratico sia per i temi trattati che per la strenua letterarietà della sua scrittura, come lettore non era affatto uno snob e amò in egual misura i classici e le opere di onesti mestieranti o addirittura di autori di serie B: «Verso il 1930 credevo che la bellezza fosse privilegio di pochi scrittori» ha raccontato. «Ora so che è comune e che sta in agguato fra le casuali pagine del mediocre o in un dialogo udito in strada».
Nei libri come nel mondo il senso è cosa assai rara. Rara, ma non impossibile. Rovesciando la frase più su citata, è altrettanto legittimo affermare che «per leghe di insensate cacofonie, di farragini verbali e di incoerenze, c’è pure una riga ragionevole, una notizia corretta». E il significato può nascondersi dove meno te l’aspetti: in uno degli infiniti atomi dell’universo, degli innumerevoli istanti della vita, degli incalcolabili volumi della biblioteca di Babele. Non intravedere il senso delle cose e insieme non disperare di percepirne – chissà come, chissà quando – un tenue, fuggevole barlume: è questa, immagino, la lezione intellettuale e di vita del futuro bibliotecario Borges.
Piero Meldini
.
Antonio Marchetti, Abbecedario: "F"
.
Ho in mano il catalogo della Biblioteca Gambalunga. Mano… manuali; questi sono i libri: corpi vivi che si possono-debbono toccare, non solo vedere, non solo leggere.
Il libro ha sapore – il sapere che contiene, materia che odora, che si trasforma come un corpo, che si ammala, che può guarire.
Il libro non richiede lettori soltanto, ma mani capaci di averne cura; non solo occhi buoni a leggerlo, ma olfatti fini. Più poveri diveniamo per esperienza, più misera si fa l’energia dei nostri sensi, più rapida è la decadenza del libro e della sua civiltà. La civiltà dell’immagine non c’entra. Il libro è anche immagine, eccome. Che cosa più immagine delle pagine miniate dei codici della Gambalunga? Ciò che muta è l’esperienza dell’immagine. L’immagine del libro (non solo quelle eventualmente contenute nel suo “volumen”) era tutt’uno con la sua intelligenza, con la lettura e lo studio del suo contenuto.
È invece l’immagine distratta a dominare oggi – l’immagine che distrae dal senso della parola, che vuole colpire e basta. Pathos senza logos.
Il libro è colloquio di parola e immagine, e di spirito e corpo, nella vivacità dell’esperienza. Oggi il colloquio è esposizione di solitudini, “dialogo”immateriale tra corpi volatizzatisi. Tuttavia, qualsiasi re-azionaria nostalgia sarebbe impensabile.
Se osserviamo i libri atttraverso la storia che anche questa grande biblioteca ci offre vediamo che il libro stesso mostra il proprio destino: dagli incunaboli così prossimi alla scrittura “vivente”, attraverso il “libro antico”, fino ai nostri attuali, fatti e pensati per il più rapido consumo.
Conoscere il passato e l’infranto non è salvarlo, nè volerlo salvare.
Semmai è amarlo – senza perchè, come ogni vero amore.
Massimo Cacciari
.
Maurizio Giuseppucci
PHOTO: GIAMPAOLO SOLITRO ©
………………………………………………….
Il libro circolare. Una conversazione continuamente interrotta
Lorella Barlaam vs. Antonio Marchetti (per la rivista on line “Aracne”)
Sta scendendo le scale della Biblioteca Gambalunga, Antonio Marchetti, mentre salgo a restituire alcuni libri presi in prestito. Fuori c’è il sole, è una di quelle giornate di settembre in cui la luce è come vino, leggero l’andare.
La Biblioteca per me è luogo di incontri benedetti con pagine e persone. Sarà così anche oggi. Gli chiedo cosa stia facendo, è tanto che voglio raccontare delle sue opere ma lui (con pudore d’artista vero) ama invece tenerle nell’ombra al riparo dal tutto rivelato.
Antonio vive da anni a Rimini – in cui espone/si espone di rado – restando un abitatore di confini. Non solo per l’erranza che lo ha portato negli anni a “fare più traslochi di Beethoven”, come sorride lui. Ma per l’arte sua che, non curando il gioco autoreferenziale e la barocca meraviglia, ricerca quel “pensiero che si muove precisamente nello spazio estetico, mettendo in tensione concetto e immagine, logos e narrazione, essere e temporalità” che Franco Rella ci ha raccontato in “Interstizi”. “Qualcosa” che, appunto, “vibra su un confine”, nutrita da uno sguardo che si mantiene dentro/fuori dal genius loci.
Stavolta però scopro che architetta non una mostra, no – si schermisce – piuttosto l’intenzione di un dialogo tra Libri e Figure, di una rilettura delle Sale Antiche della Biblioteca insieme ad artisti a lui affini e sodali… è presto per parlarne, ma si farà vivo, al tempo giusto. E lo fa.
Non per un’intervista, col metronomo a scandire domande/risposte, ma proponendo una conversazione continuamente interrotta, che intreccerà trama e ordito facendo la spola sul web. Attraverso la sistole e diastole dell’ascolto e della parola, fatti decantare nel tempo che ci vuole per accogliere il pensiero dell’altro, e rilanciarglielo. E ancora.
In una circolarità che non è quella “del gran libro” che per i mistici è Dio, ma potrebbe essere quella, im-pertinente ma generatrice di figure, di una danza.
Così è nato questo racconto.
Il primo input non può che partire dal titolo, soglia dell’esposizione (che sia stato principio dell’ordinare o successiva folgorazione icastica) intendo lo scarto tra “Come ho dipinto alcuni miei libri” e “Comment j’ai écrit certains de mes livres” di Raymond Roussel… al centro, la figura del liber, che, come scrive Jean Luc Nancy: «è pellicola situata tra la corteccia e il legno, tra il cortex e il lignum, tra il pensiero esposto e l’intimità nodosa, interfaccia del fuori e del dentro, la corteccia dell’albero, essa stessa nè fuori nè dentro, volta verso l’uno come verso l’altro, rivolta l’uno nell’altro. Qualunque cosa il libro possa diventare (…) non è possibile che non rimanga (…) “per il lettore blocco puro, trasparente” attraverso il quale non accediamo altro che a noi stessi, gli uni all’altri ma ciascuno come in un geroglifico»
In questo, una chiave?
Più d’una. Il procedimento creativo di Roussel, che lui svela nel famoso testo da te citato, gioca sulle parole, sulle combinazioni foniche, sui doppi sensi; un procedimento che tanto influenzò Marcel Duchamp e le avanguardie. Questa ricombinazione produce una narrazione, anche poetica, che, come la corteccia di Nancy, interfaccia il nonsenso ed il senso così come lo conosciamo restituendoci l’imprevedibile. Il titolo di questa “esposizione” (esporsi in senso letterale, con il rischio che questa parola rivela) indica un riferimento ma anche una lontananza, un inevitabile distacco, da quella lontana avventura (per quanto ancora oggi molti ne sono tardivamente invischiati), un segno di affezione ma anche di rottura. J’ai peint al posto di J’ai écrit è palesemente rousselliano, anche perchè nelle sale antiche della Gambalunga non troverai dipinti, quadri, ma uno scrivere libri per immagini, o una loro ri-scrittura. Un dipingere in senso traslato. Con un senso riappropriato, più disponibile a negoziare con la tradizione piuttosto che a superarla, in un gioco più “adolescenziale” – con le turbolenze inevitabili di questa età – che infantile. È già un passo avanti mi pare! Con la speranza di diventare adulti, per poi ritornare a vivere l’infanzia con occhi asciutti e distaccati. È curioso, Raymond Roussel termina la sua avventura in Italia, a Palermo. Muore in una camera del Grand Hotel et Des Palmes, una morte misteriosa che Leonardo Sciascia ha cercato di decifrare. Un geroglifico, come dicevi tu…
Da più di un anno avevo quest’idea di “mostra”, parola ormai desueta, nelle sale antiche della Biblioteca Gambalunga di Rimini. All’inizio riguardava solo me ma poi ho pensato di condividerla con altri due artisti che stimo e di cui apprezzo la ricerca. Il lavoro di Franco Pozzi l’ho conosciuto nella galleria Percorsi; quello di Maurizio Giuseppucci attraverso il web, non conoscendoci, anche se viviamo entrambi a Rimini. Ma questo non è importante, anche se può sembrare paradossale, perchè Maurizio davvero è artista del web, nel senso che usa, manipola e restituisce nella forma di una melanconica “autenticità” ciò che è a portata di tutti ma che lui “sa” vedere. Lo presentai a Rosita Lappi che apprezzò il suo lavoro e successivamente gli organizzò una bella personale nella galleria Percorsi… Di Franco mi ha colpito la sua “invisibilità”, sofisticata, aristocratica, nel senso etimologico di ottimo, valido, idoneo, e che condivido anche nel lavoro. Erano perfetti per le sale antiche e per interagire con i libri.
«Da più di un anno avevo quest’idea di “mostra”, parola ormai desueta, nelle sale antiche della Biblioteca Gambalunga di Rimini», mi scrivi. «Forse la storia universale» scrive Jorge Luis Borges, «è la storia di alcune metafore.» Di queste – e non potevamo avere altra guida – la Biblioteca è una delle più intriganti, in un altro racconto dell’argentino sinonimo dell’Universo, esistente ab aeterno, di cui l’uomo è l’imperfetto bibliotecario…
In questa tua fascinazione sembra aprirsi la possibilità di una vertigine – la Biblioteca di Babele – e di una ri-creazione del mondo – la Biblioteca di Alessandria…
Babele è anche la sua torre, il progetto di una rovina. Penso alla Turris Babel di Athanasius Kircher (autore che Pozzi utilizza in questa mostra) ove si congetturano altezze, numero di operai e materiali impiegati in sublimi e paradossi aritmetici, una vertigine simile a quella dei libri. Giustamente il testo in catalogo di Piero Meldini parte dal racconto di Borges. Nel nostro caso però c’è un’accezione della Biblioteca come luogo nella città contemporanea, in senso fisico oltre che spirituale o simbolico. C’è una suggestione che voglio raccontarti. Tra le tante iniziative interessanti della galleria “Percorsi Arte Contemporanea” diretta da Rosita Lappi, qui a Rimini, ce ne è stata una che mi aveva particolarmente colpito, quella sul collezionismo. Rosita Lappi, in uno dei suoi laterali incipit, ricordava il caso di un suo paziente, collezionista, che da bambino pregava i suoi genitori affinché i giocattoli in regalo fossero sempre due, identici. Uno serviva al gioco, rappresentava il valore d’uso diciamo, l’altro lo seppelliva per conservarlo, sottraendolo così all’usura del tempo per averlo sempre nuovo e intangibile. Questo caso, non so se si può definire clinico, si può tranquillamente annoverare nella sequenza dei casi memorabili della storia della psicoanalisi, indipendentemente dal suo più o meno successo psicoanalitico-letterario. Tralasciando questioni mediche di cui sono piuttosto ignorante, ciò che mi colpisce è che questo racconto del doppio giocattolo, l’uno restituito al consumo e l’altro alla sacralizzazione della sepoltura come per il culto dei morti, è un’immagine che rappresenta molto bene il nostro presente, il nostro vivere oggi la cultura, nel quotidiano, nelle città, qui a Rimini o altrove, in quell’altrove ove sono compresenti il passato e la costruzione ansiogena del futuro. C’è qualcosa di precluso, di interdetto, di sacro; nel senso di una indisponibilità all’uso, ai fini della conservazione. Quest’oggetto sacro è l’antico, la rovina, il passato. Dall’altro lato c’è il vorace consumo, il deperimento immediato, la dimenticanza costante, il demone dell’impermanenza. Il senso di colpa consumistico e l’impoverimento culturale (non ultimo e soprattutto della nostra lingua) non fanno che alimentare la patologia della sepoltura, della sacralizzazione dell’antico rendendolo morto nella sola conservazione. Un autoinganno, purtroppo, animato o ammantato sempre da buone intenzioni. Mi chiedo ad esempio perchè mai nel giardino del Lapidarium del Museo della città non si possa stare tranquillamente seduti a bere un caffè o un aperitivo, conversare o vedersi per un incontro di lavoro, riconnettendo così il morto con il vivo. Invece si preferisce avere due morti, il passato ed il presente. L’idea di questa mostra alla gambalunghiana è nata da queste considerazioni con cui a lungo, già da molto tempo, ho discusso con Paola Delbianco. «Resuscitare i morti e ricomporre l’infranto», come nell’angelo della storia di Walter Benjamin, per quanto marginale e così poco glamour tale intento possa apparire; e forse lo è. Tuttavia i sognatori sono persone concrete; essi infatti, come ci ricordava Ennio Flaiano, «hanno i piedi fortemente appoggiati sulle nuvole.»
Tra le righe, mi invii due angeli/messaggeri. Il sognatore di Flaiano – uno dei suoi marziani, visitatori straniati e stranianti del contemporaneo? – e l’Angelus Novus di Paul Klee, con le ali scompigliate dalla tempesta del progresso… (ma anche lui con dei bei piedoni/artiglio, ora che mi ci fai pensare)
Leggendo mi venivano in mente i pensieri di Nietzsche sulla utilità e danno della storia per la vita, dove il culto filologizzante e la monumentalizzazione del passato mostrano la faccia vera di imbalsamazione della mediocrità del presente, mentre lo strangolano, il presente… e anche il futuro
È vero: la memoria, deve servire alla vita invece. Se non apre dialoghi, meglio l’oblio.
Ma ancora un altro dialogo è quello che nella tua mostra schiuderà il “catalogo” – di cui anticipi una delle voci, quella di Piero Meldini – che completa la triangolazione di sguardi che animerà lo spazio delle antiche Stanze: quello dei Volumi, chiusi sugli scaffali, le tue opere e quelle di Pozzi e Giuseppucci che daranno loro voce e specchio, le voci narranti ed esplicanti – nel senso proprio di spianare pieghe – del catalogo…
(e in questo triangolo, come in un affresco rinascimentale, non ammicca forse l’occhio del curatore?)
Avevo chiesto a Leonardo Sonnoli di pensare ad un catalogo per questo habitat estemporaneo nelle sale della Gambalunghiana, un catalogo diverso, un “oggetto”, un’opera, come se lui fosse il quarto artista. Leonardo Sonnoli ed Irene Bacchi ci hanno proposto una scatola, un cubo, dentro il quale c’è quello che abbiamo fatto, con i testi di Massimo Cacciari, Piero Meldini, Annamaria Bernucci e Paola Delbianco. Scatola per un archivio, persino con inquietanti memorie. Dentro ci sono le immagini delle nostre opere installative fotografate da Giampaolo Solitro. Un catalogo nelle tre dimensioni che, come sappiamo, si svolgono attraverso gli assi X, Y, Z. Forse, questi assi, siamo noi tre artisti. La quarta dimensione è il tempo, ma questa appartiene a tutti.
Già, il tempo. «Emerge oggi» scrive Franco Rella «un pensiero che si fa nuovamente carico nei confronti delle lacerazioni del mondo e dei soggetti che abitano il mondo. È un pensiero che si muove precisamente nello spazio estetico, mettendo in tensione concetto e immagine, logos e narrazione, essere e temporalità.» Nelle pratiche artistiche odierne, invece, Rella denuncia un tempo «che si consuma», manifestando qualcosa che «vibra su un confine» e che «spingendosi contro e oltre il confine manifesta la precarietà, la caducità delle cose e del mondo.» La possibilità del nulla. L’ultimo verso di “Di soglia in soglia”di Paul Celan recita «Dice la verità chi dice ombra.»
E Rella conclude «Ecco, la poesia e l’arte hanno l’ombra, e in questa è possibile far fiorire anche la rosa del nulla.»
Del vostro lavoro, di quello che esporrete vorrei che tu mi raccontassi: della sua verità e della sua ombra…
Ancora, citi autori a me cari, e di formazione. Devo a Franco Rella la scoperta di Otto Weininger, sul finire degli anni Settanta. Devo dire però che nel tempo la citazione letteraria e quella artistica si è allargata a tal punto che tra virgolette corsivi e note, di originale filosofico rimane ben poco. Il filosofo usa un ready-made testuale. Si prendono in comodato esperienze artistiche già confermate e consolidate dal mercato e dal sistema dell’arte globale; in un certo senso qualcosa già preconfezionato; si procede sul sicuro. Sta diventando una moda. L’acrobata non gioca senza rete.
Riguardo al tuo ‘”elogio dell’ombra” mi pare che l’ombra si produce se c’è una fonte luminosa, non c’è ombra senza luce. Vivere nell’ombra vuol dire che da qualche parte si è illuminati, anche se di luce oggi ce n’è poca. Mi sto allargando troppo. Ma è colpa tua e delle tue suggestioni…
Veniamo a noi e alla mostra. Nella prima sala della Biblioteca – quella settecentesca e riassettata per quest’occasione nell’arredo originale, con i due mappamondi posti ai poli spaziali e con le bacheche al centro – noi tre ci mescoliamo. In bacheca troviamo una magnifica ricostruzione della firma di Antonin Artaud realizzata da Franco Pozzi con spine di acacia. Volevamo irrompere con il Novecento (altri pensosamente elaborano il nuovo millennio) in una biblioteca che nasce, nel suo “statuto”, come biblioteca “moderna”, ed estendere tale criterio di fondazione in una ideale continuità. Cito le parole di Franco Pozzi: «Rendere nuova la tradizione. Il passato inteso non come campionario al quale attingere, ma lievito che si tramanda da un autore ad un altro. Creando nuova tradizione. Questo l’obiettivo di molti artisti, che sento (spero) di condividere.» Nella sua sala seicentesca Pozzi invade lo spazio di farfalle; cito le sue parole: «farfalle notturne per la cronaca di una ‘visione’ apocalittica»; è un velato omaggio a Piero Meldini e al suo romanzo L’antidoto della malinconia, ove è descritto un mirabile “portentum” riminese, oltre a mettere in gioco – e qui riprendo il testo di Paola Delbianco – i “Diari di Giacomo Antonio Pedroni (Sc-Ms. 211), fonte dell’episodio avvenuto a Rimini nel giugno 1623, e dell’Antidoto de’ malinconici di Giuseppe Malatesta Garuffi, bibliotecario della Gambalunga alla fine del Seicento, fonte del titolo di Meldini. Ai suoi originali disegni a pochoir su vetro montato a cassetta, realizzati schermando la luce con la polvere sedimentata e leggibili se colpiti da fonte luminosa, Pozzi lega con accostamento quanto mai calzante l’Ars magna Lucis et Umbrae (Roma 1646) del genio enciclopedico Athanasius Kircher, un trattato sulla luce in relazione dialettica con l’oscurità.
L’intervento di Giuseppucci “intende alludere alla minaccia che in ogni tempo incombe su una certa idea di cultura, quella che trova la sua rappresentazione più emblematica a partire dal XVIII secolo nell’elaborazione dell’ Encyclopèdie di Diderot e arriva fino al moderno passando per le riflessioni di Gramsci . Lo spazio della biblioteca è attraversato così dalla presenza di insetti, parassiti della carta e di mosche che come nel romanzo di Hrabal, ossessionano il protagonista intento a salvare pagine di libri dalla pressa del macero. A fare da sfondo alla rappresentazione di questa silenziosa minaccia è collocata la proiezione di una antica invocazione araba per salvare i libri dagli insetti. Tracce più concrete della fragilità del libro e al tempo stesso prove della sua forza sovversiva si ritrovano nella scelta di esporre un index librorum proibitorum e alcune pagine di libri antichi dove appaiono interventi censori praticati con la cancellazione di intere parti di testo.” Queste le sue parole, e si riferiscono alla sua sala personale. Paola Delbianco: «Giuseppucci ha legato il suo album, elegante e inquietante raccolta di immagini di mosche carnarie e brani da Una solitudine troppo rumorosa di Bohumil Hrabal, a una tavola con gigantesca pulce (essa pure succhiatrice di sangue) del sesto volume delle Planches (Lucca 1770) di quel compendio universale dello scibile umano che è l’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, per molti versi manifesto dell’Illuminismo. Associa invece la piccola foto incorniciata raffigurante una massa di libri su esile tavolino con gomma a forma di teschio sovrapposta, a una citazione da Il libro della sovversione non sospetta di Edmond Jabès, a un Indice dei libri proibiti (Roma 1596) e a un testo espurgato del De institutione oratoria di Quintiliano con commento (Venezia 1567).»
Nella sala comunitaria io espongo abbecedari. In bacheca tre stupende raccolte di iniziali figurative-ornamentali, alcune a “grottesca”, attribuibili al bolognese Rodomonte Giordi, maestro “d’abaco” a Faenza, con forature nel contorno per l’utilizzo a spolvero (Sc-Ms. 1153-1155, inizi XVII secolo). Tra gli scaffali, arretrando di poco i volumi del Muratori, espongo piccole scatole da entomologo, nove, di un progressivo abbecedario, ipertesto estetico-didattico-concettuale con l’immancabile citazione letteraria di un autore. Nella sala seicentesca che mi compete, intorno al cosiddetto “badalone”, un coro circolare di leggii in ferro battuto, ciascuno recante un quaderno ove sono trascritti a mano brani di un autore o artista. Il titolo di questa installazione è Il libro circolare. Questi sono accompagnati da: Relazione del contagio stato in Firenze L’Anno 1630. e 1633, coll’aggiunta del Catalogo di tutte le pestilenze più celebri … (Firenze 1714) per il testo Il teatro e la peste di Antonin Artaud, L’Opera minora anatomica di Albrecht von Haller (Losanna 1763-1768), per il testo di Leslie Fiedler, Freaks e infine I discorsi nei sei libri di Pedacio Dioscoride Anazarbeo della materia medicinale di Pietro Andrea Mattioli (Venezia 1559) per il brano di Ernst Jünger tratto da Avvicinamenti. Droga ed ebrezza. Il libro del Mattioli è aperto sulle incisioni raffiguranti l’aconito, una pianta medicinale che in dosi massicce può produrre allucinazioni. Elémire Zolla, nel suo libro Le meraviglie della natura, riporta la definizione che gli antichi davano di questa pianta: “lo sputo di cerbero”. In omeopatia l’aconitum attenua l’istinto di morte e le crisi di panico ad esso connesse. Un sottofondo audio fatto di voci e letture (i libri parlano) concludono l’installazione.
Annamaria Bernucci, cito dal testo in catalogo, ha sintetizzato così il nostro progetto:
«Gli artisti rivelano un profilo anfibio di lettori sagaci e di interpreti altrettanto colti, capaci cioè di posare lo sguardo su brani di memoria e concedersi l’atto di rammerorare fonti e citazioni letterarie quanto visive. Qui i libri divengono protesi intellettuali dei loro apparati percettivi ed emotivi. Del resto la lettura è sempre un dialogo (o una interrogazione) che paradossalmente si fa con un autore o più autori scomparsi magari da secoli. E su questo esercizio ontologico, sullo stupore che genera, sulla conoscenza che innesca e che prolunga l’esperienza intellettuale si sono misurati.»
Infine ci sono i legami e le connessioni impreviste tra noi, ove sembra che ciascun intervento rimandi ad un altro, senza che ci fossimo dati parola.
È questo che mi ha dato più piacere: uno scoprire attraverso l’altro.
Siamo partiti dai Lumi di una Biblioteca settecentesca e al termine del nostro viaggio ci ritroviamo in un Teatro, a me pare… e dei Teatri nel più crudele ed essenziale… quello che è «come la peste» annota Antonin Artaud, perchè accende una «combustione spontanea» che «non è altro che un’immensa liquidazione» (…il Novecento!). Questa, la pars destruens. Ma. «La peste coglie immagini assopite, un disordine latente e li spinge d’improvviso fino a gesti estremi; e anche il teatro prende dei gesti e li spinge al limite: come la peste, ristabilisce il legame tra ciò che è e non è, fra la virtualità del possibile e ciò che esiste nella natura materializzata. Ritrova così il concetto dei simboli e degli archetipi, che agiscono come colpi silenziosi, accordi musicali, brusche interruzioni della circolazione, richiami degli umori, esplosioni fiammeggianti di immagini dentro le nostre menti improvvisamente destate…»
Tutto questo, nell’alchimia tra le mosche carnarie di Hrabal, l’aconitum visionario, la firma dello spinoso Artaud… un Teatro, dove la messa in scena – lungi dall’operare al sicuro, agganciata all’intertestualità manifesta della citazione – oltre a suscitare dialoghi «fa cadere la maschera, mette a nudo la menzogna,(…) scuote l’asfissiante inerzia della materia che deforma persino i dati più chiari dei sensi (…)»
Così che il Teatro si riveli «l’equivalente magico e naturale dei dogmi in cui abbiamo cessato di credere…»
Rimini, ottobre 2011
Aprile 11th, 2010 § § permalink
Monumento "Avis", cimitero di Rimini
………………………………………………………………………………………………
Museo delle genti d'Abruzzo, Pescara
Aprile 5th, 2010 § § permalink
Bologna, Galleria Mascarella
…………………………………………………………………………………………………
Il lavoro di Antonio Marchetti pur appartenendo ad un’area dichiaratamente post-moderna trova un suo spazio autonomo in una forma di “lucida violenza”, forse derivatagli da una sorta di “disincanto per l’opera”, con cui affronta il foglio o la tela.
La consapevolezza di aver oltrepassato la soglia del “moderno” e del vivere in un “dopo”, la coscienza di iniziare il proprio lavoro da un azzeramento dei valori, lo porta a produrre una vitalità espressiva sdrammatizzata nelle soluzioni figurative e caratterizzata da umori psicologici lasciati al loro libero scorrere senza l’incubo del disvelamento.
La comunicazione si fa perentoria e priva, finalmente, di ogni sorta di “citazionismo” vuoi colto oppure incolto che ormai da tempo ci affligge. L’atteggiamento espressivo di marchetti, caratterizzato da una ridotta grammatica segnica, non è nemmeno del tipo “selvaggistico” o “vitalistico barbarico” ricorrente ma gli deriva da un uso sofisticato dell’iconografia del fumetto: lo stesso utilizzo di una titolazione, non didascalica ma come parte integrante dell’immagine, sottolinea questa provenienza.
Va subito detto che si tratta di un uso “ironico” del fumetto quindi non derivato dal gusto per il revival ma da un suo utilizzo, potremmo dire, “strategico”.
"Rapido e catastrofico"
La formulazione si fa automatica e le associazioni producono una sorta di fissione che genera personaggi incredibilmente dotati di vigore energetico che stanno tra “Braccio di ferro”, il “Signor Bonaventura” e il giovane marinaio di “Querelle”.
In una situazione dove pare che l'”immaginare” ci sia fatalmente precluso e che l'”operare” altro non sia se non la produzione del nulla diventa sempre più urgente ricercare il lato nascosto delle cose: quel ‘”meraviglioso” che tanto manca al nostro quotidiano; Marchetti lo scopre nelle qualità segrete del dettaglio: ora nella porta spalancata di una casa dalla quale fuoriescono e si liberano le cariche energetiche interne, ora nei piedi danzanti della coppia del suo “colpo di danza” che si pongono come i poli irradianti di un emblematico arco voltaico.
Vittorio Mascalchi. 1983
"L'uomo dalle 99 malattie"
"Double bind"
"Double bind 2".
"Double Bind 3"
©Photo Grazia Branco
Aprile 4th, 2010 § § permalink
A prima vista potrebbe sembrare una galleria di ritratti. Ed in effetti, in questa serie di coloratissime immagini non si fatica a individuare lineamenti e fattezze di volti, benché le loro espressioni siano a dir poco sfuggenti. Tuttavia qualche cosa in essi ci é familiare. Si tratta indubbiamente di visi conosciuti, ma dove e quando sarebbe difficile dirlo.
La medesima impressione si prova allorché si rivedono degli amici persi di vista da tempo, i tratti del volto dei quali – sia pure dimenticati e sepolti – hanno continuato a soggiornare presso di noi, e ora, richiamati d’improvviso alla mente dalla presenza vivente di colui che li reca, riaffiorano proprio così come erano allora, mentre solo in minima parte coincidono con la loro versione attuale. Allo stesso modo queste facce – lo sentiamo, più ancora di quanto riusciamo a saperlo – le abbiamo già incontrate da qualche “altra”parte.
Forse questi volti hanno animato una volta i nostri sogni. Di certo, hanno qualche cosa a che fare con la nostra infanzia. Se non proprio nella configurazione attuale, un pò rimescolati e certo meno ordinati, sono stati nostri compagni di giochi. Per essi abbiamo provato assieme affetto ed invidia. Infatti non c’era cosa che riuscisse loro più facile di quella che tutti i bambini e spesso anche gli adulti con grande pena cercano senza sempre trovarla: essere precisamente e semplicemente se stessi. Questa loro capacità destava la nostra ammirazione e ci faceva soffrire. Sarà probabilmente per questo che tanto volentieri giocavamo con loro: per condividerne o strapparne il segreto.
Ma come non è possibile apprendere la rotondità da una palla o gli sgargianti colori da pennarelli e matite, così non ci fu mai modo di farsi svelare l’arcano. Noi crescevamo continuando a non sapere chi fossimo, mentre i nostri giochi rimanevano sempre se stessi. E non diversamente accadeva a quegli oggetti un pò strani che avevano il potere di colpire la nostra attenzione, e che qui puntualmente ritroviamo: serrature, appendiabiti, molle, guarnizioni di gomma, anelli per tende, pomelli, bastoncini di legno, bacchette di metallo o di plexiglas, tessere di rivestimento, decorazioni di mobili, oggetti in ceramica, orecchini, carte per vasi, cristalli per lampadari, fusi per cucito, bottoni, caratteri tipografici in bronzo o in acciaio, coni per pasticceria, metri da muratore, cinghie di trasmissione, oltre naturalmente a pezzi di lego e meccano, proiettili di gomma per pistole ad aria compressa, giocattoli di latta e di plastica, carte colorate e biglie di vetro.
Solo apparentemente tuttavia questi oggetti, con la loro immutabilità, con la loro ferrea costanza in se stessi, avevano e hanno divieto d’accesso alla vita: certo, la loro esistenza avrà magari meno intensità di quanto ne reputiamo necessaria per riconoscere a qualche cosa di essere vivo; cosicché, dal nostro punto di vista, essi conducono forse una vita in sordina, “minore”. Ma essa dura in compenso molto più a lungo di altre, come tutto quel che è inorganico rispetto all’organico. Ciò non significa che anche gli oggetti non muoiano: anzi, è proprio il loro cessare di esistere che sta a dimostrare che hanno vissuto davvero. Infatti, soltanto ciò che ha la vita ha diritto pure alla possibilità di morire.
Le cose che qui vediamo raccolte non sono ancora defunte, ma certamente hanno alle spalle una lunga esistenza. L’età nella quale attualmente si trovano è quella senile in cui, di più ancora che compiere le azioni per le quali sono state create, viene loro richiesta una sedentaria attività di memoria. Per un compito simile, sono più che indicate le cassette in cui sono state riposte: in una tale posizione di decubito, del resto, giacciono tutti i nostri ricordi, non isolati e rinchiusi ciascuno dentro il proprio cassetto, bensì inseriti all’interno di una comunità dove continuano a vivere. In questo contesto l’artista, piuttosto che l’infaticabile suscitatore del nuovo, figura come l’amministratore giudizioso del mantenimento di ciò che già esiste. La sua importanza, comunque, non diminuisce con questo. Non fosse per lui, rimarrebbe ben poca cosa delle costellazioni di oggetti che abbiamo dinanzi: così, quello che in esse riveste il ruolo di bocche, di nasi, di occhi, di orecchie, si presenterebbe confuso in quel gran bazar sotterraneo dentro il quale precipitano tutti gli oggetti allorchè hanno smesso di essere utili. Le geometrie tremolanti secondo cui si dispongono sembrano originate proprio dal brivido che giustificatamente attraversa ciò che è sfuggito all’immondizia quasi per caso.
Ma sbaglierebbe chi scorgesse in questi assemblaggi materici il passatempo del frequentatore di discariche o il semplice bricolage dell’artista, tardo epigono di Max Erst o Kurt Schwitters: l’insistenza cocciuta con cui vi è ricercata e trovata la simmetria, piuttosto, fa di queste composizioni dei veri e propri monumenti alle cose, delle memorie portatili di una specie di oggetti in via di estinzione. Monumentale, e perciò memorabile, infatti, non è quanto possiede la connotazione del grande, bensì quanto coniuga in un unico ordine la logica delle singole parti alla necessità dell’intero. Ma ancora di più, la memoria che qui viene salvata non è quella soltanto di una manciata di vecchi arnesi caduti in disgrazia, ma in una qualche misura la memoria stessa in senso più lato.
Il fatto é che perchè essa si eserciti ha bisogno di fissarsi a degli oggetti precisi, proprio come una forza che per potersi applicare necessita almeno di un punto. Ciò che questi variopinti supporti tengono desta in noi in qualità di memoria, dunque, è la distanza che ci separa da ciò che eravamo e che non possiamo in ogni caso più essere. Perchè di una cosa almeno siamo sicuri:di non essere-per il solo fatto di lasciarci commuovere da questi balocchi – eterni fanciulli. Piuttosto attraverso di essi scorgiamo l’ombra di noi stessi bambini che in un semplice gioco scoprivamo per la prima volta la vanità di tutte le cose:
“Giro giro tondo
che ci faccio in questo mondo?
Ci faccio quel che posso
con il mio groppone addosso
quando non ne posso più
piglio le gambe e mi butto giù”.
Marco Biraghi
… Nascono dallo stato di vuoto di un annoiato collezionista di cose inutili, recuperate dal fondo del’inessenziale e della marginalità, anche dalla spazzatura. Il progetto si è delineato spontaneamente in tracciati di volti, archetipi di volti, maschere, dominati dal demone della simmetria e dello specchio, che hanno aiutato l’idea compositiva, il farsi di una “regola”, per così dire.
Aprile 4th, 2010 § § permalink
Stefano Levi Della Torre
We know but we know not…
There was a low grey wall, of stone or maybe blocks of concrete; above darkness. From the wall, a long thin hand descends slowly, almost to the ground, but the body cannot be seen, it is on the other side of the wall. I remember having had this dream twice when I was a child. I was impressed not just by the scene but also by its lack of colour. It was grey without strong contrasts. At that time we had gone to Serra di Ivrea, under a false name to escape anti-Semitic persecution. While I dreamt, the extermination in the concentration camps was taking place, but it would be presumptuous to think that this was a prophetic dream. It was more a childish nightmare. Now I am surprised by its consonance with these drawings by Antonio Marchetti, in carbon grey and the signs reduced to symbol: the “little houses” enclosed within a fence, which we know to be electrified, evoke a false shelter and a false intimacy: beneath the childlike sloping roofs there are the concentration camp blocks, the cremation ovens and the gas chambers.
Those of us who have never lived through extreme experiences know, but know not, the hunger and thirst, the suffocation of people packed into sealed wagons and gas chambers, the slave labour until exhaustion and death, the torture without escape. We cannot experience the smell of the concentration camps, nor the cold without shelter, the deadly harshness of a meaningless order, the terror of every minute. We know, but know not, the solitude of the mass of victims, where the prisoner’s enemy was also the other prisoners. “The world into which we have plunged – wrote Primo Levi of the submerged and the saved – was terrible but also indecipherable: it conformed to no model, it was around us but also within us, the ‘we’ lost its boundaries, the adversaries were not two. A single frontier was not distinguishable but many and confused, perhaps innumerable, one between each of us”. But this difficulty in distinguishing good from evil is not only between each of us but also within each of us. The problem is of the sense of guilt of the survivors, who suspect that they are alive at the expense of others. To have, in surviving, supplanted the others, singly or innumerably, and so deny their innocence. The victim is not such by guilt, but nevertheless is not innocent, because implicated in the same history as the executioner. Both are part of the same human substance, both a contiguous possibility of the human kind. “The righteous among us (…) have felt remorseful for the evil that others, and not them, have done. They have been involved because they felt that what had happened around them and in their presence, and in them, was irrevocable, demonstrating that man, mankind, in other words us, was potentially capable of inflicting an infinite amount of pain: see no evil, hear no evil, do no evil”.
Which of us can say how we would behave if circumstances beyond our control, choice or failure to choose, had turned us into the persecuted or the persecutor? Would reason guide us? But the deportations, the concentration camps and the exterminations were rationally organised. Compromises with power and circumstances did not lack rationality, calculation. It is the perverse presumption of being irrational, if irrationality is the Nazi (or even only ethnic-nationalist) obsession with “living room”. Yet there are processes such as the increase in population and the precariousness of water, air and soil resources, that seem to expand exponentially in a limited environment: the radius of the Earth is in fact delimited. Which human groups are worthy of living and which not, who is to be excluded and who included within the physical, economic and legal confines of life itself, is a question that has been asked continuously throughout history, resulting in atrocious conflicts. Technological and administrative extermination could, in the future, appear to someone to be a rational solution and Auschwitz is a prophetic anticipation. Will memory guide us? We are right to exalt memory against forgetfulness. What has happened over the centuries – the stake, the expulsions and the pogroms… – convinces many that Nazism represents an aggravated manifestation of past barbarities. But it is not just that. The “final solution”, genocide, was not believed in by many for far too long because memory did not supply examples. Memory, in fact, is also pre-judice. It helps us to predict the predictable and this is reassuring, but it can prevent us perceiving the unpredictable, and this is deceptive. Against ferocious beliefs, trust in the memory of what has happened “so that it does not happen again” is not enough, if there is not the memory of the unpredictable as well, the consciousness of the fact that history never fails to surprise us, for good or evil.
We know a great deal about the concentration camp. It is one of the most documented of historical facts and yet it remains one of the most inexplicable of experiences. It is another world with respect to ours. The witness has assumed the task of translating into our civil language that other world and that other language. Two worlds that exclude each other – ours and that of the concentration camp – and yet each presents themselves as a possibility of the other. After Auschwitz we have returned to civilisation but Auschwitz was created by civilisation, showing itself to be one of its possible results “things that exist were introduced irrevocably into our world”, wrote Prino Levi, and since it has happened, it can happen again. We have seen this in other places and in other terms But the difficulty of crossing the boundary between incompatible universes is not just ours. It is felt by the witnesses themselves. Primo Levi told us, a few months after his return, and wrote in If This is a Man, “Today, on this real day today, in which I am sitting at a table and writing, I myself am not convinced that these things really happened”.
This real day, today… And yet, at the end of the respite, it is today that suddenly appears illusory like a recurrent dream vision, “I am back in the concentration camp and nothing is real outside the concentration camp. The respite was a brief vacation of the senses, a dream: the family, nature in flower, home (…) I hear a well-known voice; a single word, not imperious, short and mild. It is the dawn command in Auschwitz, a foreign word, feared and awaited, “Wstawc”. This is how the story of the return finishes, once again in Auschwitz. Return is nothing other than a respite. In dream we understand the terrible transfiguration of good and evil, the shadow of Auschwitz behind the “real today”. The disappearance of today into the nightmare of Auschwitz. Much of what we know about this or other massacres do not give us this sensation. We know but we remain distanced, either to defend ourselves from anguish or, more simply, because of the impossibility of understanding the extreme. Perhaps what can provide us with a more intimate impression comes from our childish nightmares, reawakening in us the anguish a child is able to feel when he imagines all the possible terrors of the dark, every possible transformation of what is familiar and safe into something foreign and tremendous. The neighbour who unexpectedly becomes a mortal enemy, a population, among whom one has lived, turning into persecutors, a country and a city that suddenly become aggressive: mutations that have accompanied the massacres of the past and the present. Even art finds it hard to represent the horrors of similar transformations. Picasso did not succeed in Guernica, where nothing is elusive, everything is in theatrical light and the anguish of mutation is missing because everything has already mutated. Goya succeeds, or Otto Dix in his drawings of the first World War. Because the horrible spectacle is not sufficient to involve us in the tragedy. It is rather something insinuating and unutterable that has an impact upon us, and touches us within, with that primary anguish of existence and survival that we have intuited since childhood, like the face in the shadow of what is normal or the immanent possibility of the inversion of the world, a transfiguration in pain and destruction of what is alive.
Stefano Levi Della Torre
Sappiamo ma non conosciamo…
C’era un basso muro grigio, di pietra o forse di blocchi di cemento; al di sopra, una caligine scura. Dal muro una mano magra, allungata, scendeva lentamente quasi fino a terra, ma il corpo non si vedeva, era al di là del muro: ricordo di aver fatto per due volte questo sogno quando ero bambino; mi aveva impressionato non solo per la scena, ma anche per la sua singolare mancanza di colore. Era grigio, senza forti contrasti. A quel tempo eravamo sfollati sulla Serra di Ivrea, con falso nome per sfuggire alle persecuzioni antisemite. Mentre sognavo era in corso lo sterminio nei Lager, ma sarebbe presuntuoso pensare che quello fosse un sogno veggente. Era piuttosto un incubo infantile. Ora mi sorprende la sua consonanza con questi disegni di Antonio Marchetti, coi loro grigi a carbone e i segni prosciugati fino al simbolo: le “casette” recluse entro un recinto che sappiamo elettrificato evocano un falso riparo e una falsa intimità: sotto i tetti infantilmente spioventi sono i blocchi del Lager, i forni crematori, le camere a gas.
Noi che non abbiamo vissuto esperienze estreme sappiamo ma non conosciamo quella fame e quella sete, il soffocamento di gente stipata nei vagoni piombati e nelle camere a gas, il lavoro schiavo fino all’esaurimento e alla morte, la tortura senza scampo; non conosciamo gli odori del Lager, né il gelo senza riparo, né il rigore mortale di un ordine insensato, né il terrore d’ogni minuto; sappiamo ma non conosciamo la solitudine nella massa non solidale delle vittime, dove nemico al recluso era anche l’altro recluso: “Il mondo in cui ci si sentiva precipitati – scriveva Primo Levi ne I sommersi e i salvati – era sì terribile ma anche indecifrabile: non era conforme a nessun modello, il nemico era intorno ma anche dentro, il “noi” perdeva i suoi confini , i contendenti non erano due, non si distingueva una frontiera ma molte e confuse, forse innumerevoli, una fra ciascuno e ciascuno”. Ma questa difficoltà di distinguere il bene dal male non si pone solo fra ciascuno e ciascuno, ma anche all’interno di ciascuno: è il problema del senso di colpa del sopravvissuto che sospetta di essere vivo invece di altri, d’avere, nel sopravvivere, soppiantato gli altri, singoli o innumerevoli, e perciò nega a se stesso l’innocenza. La vittima era tale non per colpa, e tuttavia non risulta innocente, perché implicata nella stessa storia del carnefice: entrambi partecipi della stessa sostanza umana, entrambi possibilità contigue dell’umano. “I giusti tra noi (…) hanno provato rimorso per la colpa che altri e non loro avevano commesso, in cui si sono trovati coinvolti, perché sentivano che quanto era avvenuto intorno a loro ed in loro presenza, ed in loro, era irrevocabile (…); avrebbe dimostrato che l’uomo, il genere umano, noi insomma, eravamo potenzialmente capaci di costruire una mole infinita di dolore: basta non vedere, non ascoltare, non fare”.
Chi di noi può dire come si sarebbe comportato, come si comporterebbe se cause di forza maggiore e le proprie scelte o non scelte lo buttassero sul versante dei perseguitati o su quello dei persecutori? Sarà la ragione a guidare? Ma la deportazione, il Lager, lo sterminio erano organizzati razionalmente; i compromessi col potere e con le circostanze non mancano di razionalità, di calcolo. E’ il presupposto perverso ad essere irrazionale, se irrazionale è l’ossessione nazista (o anche solo etnico-nazionalista) per lo “spazio vitale”. Eppure ci sono processi come l’aumento della popolazione, la precarietà delle risorse idriche, dell’aria, del suolo che sembrano crescere in modo illimitato in un ambito costante: costante è infatti il raggio della Terra. Quali gruppi umani sarebbero degni di vivere e quali no, chi debba essere escluso e chi incluso negli spazi fisici, economici, dei diritti, della stessa vita è una questione che si è posta di continuo nel corso della storia, accendendo conflitti atroci. Lo sterminio tecnologico e amministrativo potrà in futuro sembrare a qualcuno una soluzione razionale, ed Auschwitz un’anticipazione profetica. Ci guiderà la memoria? Giustamente esaltiamo la memoria contro l’oblìo. Eppure il ricordo di quanto era avvenuto nei secoli – i roghi, le espulsioni, i progrom… – convinse molti che il nazismo rappresentasse una manifestazione aggravata di barbarie passate. Ma non era soltanto così. La “soluzione finale”, il genocidio, per troppo tempo non venne creduto da molti perché nessuna memoria ne forniva l’esempio. La memoria infatti è anche pre-giudizio. Ci aiuta a prevedere il prevedibile e in ciò è rassicurante; ma può ostacolare la percezione dell’imprevisto, e in ciò è ingannevole. Contro le fedi feroci, la fede nella memoria di quanto è avvenuto “affinché non si ripeta” non è adeguata se non è anche memoria dell’imprevedibile, coscienza del fatto che la storia non cesserà di coglierci di sorpresa, nel bene e nel male.
Sappiamo molto dei Lager, è uno dei fatti storici più documentati, eppure resta una delle esperienzepiù incomunicabili. E’ un altro mondo rispetto al nostro. Il testimone si è assunto il compito di tradurre nel nostro linguaggio civile quell’altro mondo e quell’altro linguaggio. Due universi che si escludono – la nostra esistenza e quella del Lager – pure ci si presentano l’uno come una possibilità dell’altro: dopo Auschwitz si è tornati alla civiltà, ma Auschwitz è stato partorito dalla civiltà, ha dimostrato di esserne un esito possibile: “è stato introdotto irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono”, scrive Primo Levi, e poiché è successo può di nuovo succedere. L’abbiamo visto, in altri luoghi e in altri termini. Ma la difficoltà di attraversare quel confine tra universi incompatibili non è solo nostra, è avvertita dagli stessi testimoni. Ce lo dice Primo Levi, che a pochi mesi dal suo ritorno da Auschwitz scrive in Se questo è un uomo: “Oggi, questo vero oggi, in cui sto seduto al tavolo e scrivo, io stesso non sono convinto che queste cose sono realmente accadute”. Questo vero oggi… Eppure, alla fine de La tregua è l’oggi ad apparire all’improvviso illusorio in una visione ricorrente nel sogno: “Sono di nuovo in Lager, e nulla è vero al di fuori del Lager. Il resto era breve vacanza o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa (…) Odo risuonare una voce ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. E’ il comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, “Wstawac´”. Così finisce, di nuovo ad Auschwitz, il racconto del ritorno. Il ritorno non è che una tregua. Attraverso il sogno cogliamo la terribile trasfigurazione del bene e del male, l’ombra di Auschwitz dietro il “vero oggi”, l’evanescenza dell’oggi nell’incubo di Auschwitz. Il molto che sappiamo su quello e su altri sterminî non ce ne danno però la sensazione: siamo consapevoli ma ne restiamo estranei, o per difenderci dall’angoscia, o più semplicemente per impossibilità di comprendere l’estremo. Forse ciò che ce ne può dare un’impressione più intima viene dai nostri incubi infantili, dal risvegliare in noi l’angoscia di cui è capace un bambino quando immagina nel buio ogni possibile terrore, ogni possibile trasfigurazione di ciò che è familiare e sicuro in qualcosa di estraneo e tremendo. Il vicino che diventa inaspettatamente un nemico mortale, un popolo entro cui si è vissuto che diventa persecutore, una terra e una città che d’un tratto diventano aggressive: mutazioni che hanno accompagnato le stragi nel passato e nel presente. Anche l’arte fatica a rappresentare l’orrore di simili trasfigurazioni: non ci riesce Picasso in Guernica, dove nulla è sfuggente, tutto è in luce teatrale e manca l’angoscia del mutare perché tutto è già mutato. Ci riescono Goya, o Otto Dix nei suoi disegni sulla prima guerra mondiale. Perché non basta lo spettacolo orribile a coinvolgerci nella tragedia; è piuttosto qualcosa di insinuante e indicibile a far sì che il fatto ci attraversi, e tocchi dentro di noi quello che nella prima angoscia di esistere e sopravvivere abbiamo intuito, fin dall’infanzia, come faccia in ombra di ciò che è normale, o possibilità immanente d’un rovesciamento del mondo, d’una trasfigurazione in dolore e disfacimento di ciò che è vivo.
Virginia Cardi
Altri sguardi.
Unità minima dell’esistenza: il campo. Il sedime del campo é fatto di terra e di gesti . Archetipo di ogni comportamento é luogo ove si fissano necessità primarie; geografia essenziale nella quale il territorio, fatto di molteplici aggregazioni, si rifrange e si compone. A partire dalla sua forma quadrata o rettangolare, da questa figura regolare, le civiltà al loro nascere stabilirono leggi, fissarono divieti. Nel campo le regole si posero di necessità, a suggello dei suoi assi che uniscono opposti, che legano ciò che è separato, gli estremi del mondo. Entro i suoi confini, i suoi limiti, sorsero consuetudini civili. E confine fu il solco dell’aratro, segno che scandisce il dentro e il fuori, il sopra e il sotto. La liminarià ne è un carattere peculiare; soltanto dopo aver stabilito quei limiti vennero fondati templi, case, poi, città. Il campo, piccolo pezzo di terra, é sintesi di bisogni alimentari, di convenzioni rituali, in cui la vita nella sua temibile ciclicità é esemplata, fin nei suoi contrari: del campo si raccoglievano i frutti , nel campo si raccoglievano in povere sepolture anche spoglie mortali. I campi di Marchetti, intrisi di nero, graffiti sulla materia atemporale della pietra sono simboli, ritrovati nell’attualità del nostro pensare. Il campo adagiato sulla pietra si apre e si chiude intorno a temi antichi e nuovi. Mi pare che nell’immagine arcaica di cui si ragiona, Marchetti nello scandaglio di temi desueti, articoli come gli è abituale, un discorso. Pronunci un desiderio, vero slancio verso le stelle, quando i suoi campi sono inclinati ad accogliere qualche solitaria cometa, dove i notturni stellati abbracciano nel ricordo memorie leopardiane e visioni vangoghiane. Là erano tuffi estatici del poeta errante nella bellezza senza ragione, eppur palpitante della natura; lì una volontà di rifondazione di sé, si fissava nell’instancabile gesto del seminatore. Ma, si sa, nei poeti e negli artisti, le immagini perdono diritti di proprietà e vivono una loro vita, aprendo con un battito d’ali a nuovi sogni. Questi campi che par si librino in aria, sospinti da una qualche sete di ancestralità, sono altrove bagnati di dolore.
Il campo recintato devia da metafore felici e conduce ad un altro immaginario. Le regole di definizione del territorio, l’impianto della divisione/separazione, normati da imperativi di individuazione, di appartenenza ci fanno ragionare; pongono altri significati ai quali Marchetti ci introduce. I campi intesi comeorti-giardini nelle loro implicazioni semantiche di aperture, di orizzonti, ove nascono soli, – nell’ orto si inflette l’idea di una nascita , di una ciclicità del giorno -, si intercalano ad altri campi. Non più luoghi di lavoro e di scambio, non più spazi dove la gente conveniva a scambiare cose e pensieri – così come ancora oggi certe piazze portano questo nome- ma luoghi di segregazione, di deprivazione delle libertà. Marchetti affronta la questione di questo delicato e spesso mancato distinguo, e i fraintendimenti che ne conseguono, ben radicati nelle mentalità e nelle istituzioni: le funzioni di limite, di soglia propri del campo, e quelli di reclusione propri del recinto. Mentre mura e porte proteggono, contengono, e soprattutto accolgono qualora si rispettino i genius loci; i recinti relegano forzosamente, sono ambiti in cui l’alterità è condotta, l’identità é sospesa, fin dentro i diritti della civiltà e dell’umano. Spostando il discorso verso queste idee, Marchetti anche alla luce di autori e letture a lui care, da Foucault ad Agamben, costruisce il simbolo intorno a questioni cruciali dei nostri tempi. La domanda che rintocca mi pare essere questa: è proprio vero che la pratica della reclusione nelle sue manifestazioni più varie sia propria di un passato lontano? O in realtà sia solo abilmente mascherata nelle maglie delle società contemporanee, in apparenza accondiscendenti e democratiche? Sebbene le democrazie in Europa si mostrino sempre più multietniche, pluraliste, vecchi e nuovi sistemi di negazione dell’alterità si stanno configurando nel sociale. Il filo spinato che sinistramente si tende intorno alle case di certi carboncini dell’artista non evoca soltanto le vicende più eclatanti della storia del presente ma allude sottilmente a microstorie del quotidiano, alla nostra intimità violata, alla condizione di uno spaesamento divenuta perdurante e molto spesso non consapevole. Interessanti i paesaggi nei quali Marchetti ambienta il suo abitare solitario, spazi vuoti, che sembrano diventare anche per una certa incidenza della luce, superfici lunari. Segno forse di una voglia di andar via, o di un sguardo a distanza, a cui l’arte, oggi, dovrebbe mirare.
Aprile 1st, 2010 § § permalink
"La Camera verde", Ravenna, Cripta Rasponi
GREEN ROOM
Dialog.
What do the faces you have collected share?
Elegance. I have never seen anything more elegant than the peach flowers by Van Gogh. He is elegant. Like the others, by the way.
At first sight you would think of death, or memory, or even melancholy and nostalgia more than of elegance itself. Can you explain more clearly what do you mean by elegance?
Perhaps don’t we seek for elegance in the way we take care of a dead person before his public exposure? Indeed this is elegance. It shows in the unusual. It is always a revelation. Even in the trivial things. Elegance is what keeps us alive or gives us the illusion of living.
Are you referring to elegance as an aesthetic category?
Marguerite Yourcenar
Elegance is the aesthetic category, as you say. All the greatest artists are elegant. And since art is made by artists, true art is the very elegant one. What, beside war, can Rossellini and Gropius share?Duchamp and Arendt? Van Gogh and Roussel? I can’t find another word but elegance.
We live in an inelegant epoch, I’d say in a very vulgar one. Cannot this term seem obsolite? A little snobbish and self-opinionated?
You are using words that I like very much even though many others are embarassed by them. But your remarke reveals a sort of justification of vulgarity. You are astonished by a lack of it which you consider snobbish. I don’t know what you mean by snobbish but to me it is not a negative word. I like secret societies – besides, they never are entirely secret. At the movies, when I see vulgarity offered in an elegant way I believe I’m spending a couple of non-vulgar hours. If the vulgarity I see to is also inelegant, then I become exclusive. One has to chose and look at the only things that are worthy of consideration. We don’t have much time.
What kind of relationship is there between François Truffaut’s chambre verte and yours?
Childhood and adolescence. And, obviously, the collection of images and the dead -who are the living inside everyone of us – worship.
In another occasion, you spoke about exile regarding your latest expressive research. Would you like to go through it again?
Unfortunately exile is silent. When words fail one is speechless and exiled. When what you thought was important has been crushed by the mallet of insignificance and by the replaceable, you become silent. The irreplaceable has been stabbed and we all are exiles. Those photos are to me icons, they longing to grab what is lost. I know the game; my words will be sifted by non-authenticity and by superfluity. But the challenge goes on and the artistic one is the only one in which there is no need to shed one’s blood. Unless some new dictatorship has already pointed at it. I’m sorry that this interview is taking a pessimistic tourn.
You always look back. Don’t you think you need to face contemporary and future time? I face it very often, mainly regarding time.
Joseph Conrad
I find absolutely anachronistic using the mouse while instead of clicking it I could talk to my computer. I believe we are far too slow. I mean that there will always be a time ahead of us. And contemporarity could be different for each of us. What do I know about contemporarity for a Lappish fisherman? What is the name of this Führer who decides what should be contemporary?
Why green?
When Trouffaut was asked about it he answered that the other colours were already taken, quoting film titles in which other colours were used. There is green even in a film by Rohmer. I wouldn’t know (there is also the green box by Duchamp); I think green has to do with organic substances and their limit, with putrefaction or unknown organic substances. I think Martians are green.
New figures join the green chamber, your collection grows. How does this work develop?
Through discovery, homage, recurrence. Like Primo Levi in the tenth year of his death, and with him the re-discovery of human dignity and elegance by means of sobriety. Inside the frames which keep the faces are shown several materials like the leaves and earth fragments I used for Vosdanik Adoian (Arshile Gorky) to evoke the memory of the Armenian land. Another Armenian sollicitated a second work: after the reading of “Otto grammi di piombo, mezzo chilo di acciaio, mezzo litro di olio di ricino” by Harutin Kasangian I dedicated an icon to him using a portrait in which he is beatifully depicted as a child. A thread ties up these figures: they talk to each other and I would like this dialogue to be understood. Take for instance the recent death of De Koonig so close to Gorky… you see, it is like a tale in progress.
This way you are building up a sort of autobiography or the personal record of a belonging.
Orphans are the most consistent collectors of the dead images. But, beside the simple idea of substitution this work is to me a gift, a way of trespassing my individuality and joining others by offering – as a sign of friendship – these unique and elegant portraits. It’s a paradox, but this happens in the most individual and subjective way: by telling one’s own story. I’d like to go back to the concept of elegance. It seems to me that you are not hinting at an external fact but at something quite different. What do you find elegant in these figures?
Walter Benjamin
Take Artaud for instance. The photos Denise Colomb took of him, show us the great artist worn-out and shockingly disquieting with his teeth broken by the shock treatment and his thinned hair. Elegance is always an inner quality, Artaud would always look elegant. Elegance is like a mark of distinction, the movements of a foregneir as Artaud has always been. One is inclined to ask how meanness and rage can coexist with elegance. When you enter the Van Gogh Museum in Amsterdam you can perfectly understand it. As you can discern it in Rembrant who painted by using excrements. Christ’s Passion is elegant, as the Mannerists well knew. Unfortunately today the word elegance is an appanage just for the stylist-artist. Elegance has its own turnover.
Isn’t it a way to exorcise suffering and pain, to deny conflicts and madness?
What we know about pain is only its representation, its construction. True pain is silent and unspeakable. He who suffers is an orphan of words. Indeed to be an orphan of words, to be speechless, produces pain and madness. And the same could be said for the unheard being embodied in a dumb speaker. It is the shame of a voice that shouldn’t speak nor be heard.
With your green room you aim to capture what is lost, as well as hold and deliver it to a widened time. Is it a sort of Monument to the Nineteenth century?
I’m quite conscious of my art’s and my personal limits. I never deceive myself. If to Baudelaire everything was half true and half ephemeral, right now we have already eaten fifty per cent of the truth. Art has placed itself in the deadly and thoughtless grinder of pettiness (“Let’s get petty!” Totò was saying) and we have to face it. And everyone is free to make his own choice. To believe in a widened time, as you say, or into immortality, as I’d rather say, is certainly a hard one. But I like the word monument as well as monumental. Indeed, as a child, when I lived in Pescara, my favourite game was a monument: I used the one in Piazza Cicerone as a slide. At the end my monument to the Nineteenth century is a game too.
Dialogo
Cos’è che accomuna i volti da lei raccolti?
L’eleganza. Non ho mai visto nulla di più elegante dei fiori di pesco di Van Gogh. Lui è molto elegante. Come lo sono tutti gli altri personaggi del resto.
Al primo momento non si penserebbe all’eleganza ma piuttosto alla morte, alla memoria, alla melanconia o alla nostalgia. Può spiegare meglio cosa intende per eleganza?
La cura della persona del morto prima dell’esposizione non cerca forse l’eleganza? L’eleganza è appunto questo. Essa appare nell’inconsueto. E’ sempre una rivelazione. Anche nelle cose più banali. L’eleganza è la cosa che ci tiene in vita o che ci lascia illudere di vivere.
Lei si riferisce all’eleganza come una categoria estetica?
Primo Levi
L’eleganza é la categoria estetica, come dice lei. Tutti i grandi artisti sono eleganti. E siccome l’arte la fanno gli artisti la vera arte è quella molto elegante. Cos’è che potrebbe accomunare, a parte la guerra, Rossellini e Gropius? O Duchamp e Arendt? O Van Gogh e Roussel?… Non so trovare altra parola che eleganza.
Stiamo vivendo in un’epoca molto poco elegante, direi anzi molto volgare. Non potrebbe apparire troppo desueto questo termine? Snobistico e un pò esclusivo?
Lei usa tutte parole che mi piacciono mentre altri se ne vergognano. In ogni caso la sua considerazione rivela che in fondo lei la volgarità la giustifica. Ciò che la stupisce è la non volgarità, che considera snobistica. Non so che significato attribuisce alla parola snobistico ma io non la trovo negativa. A me piacciono le società segrete, che poi segrete completamente non lo sono mai. Se vado al cinema e vedo che la volgarità mi viene presentata con eleganza allora credo di aver passato due ore non volgari. Ma se chi mi sta parlando oltre a dire volgarità è anche inelegante ecco che allora divento esclusivo. Bisogna scegliere e guardare le sole cose che contano. E di tempo non ce n’é molto.
Che relazione c’è tra la sua “camera verde” e quella di François Truffaut?
L’infanzia e l’adolescenza. Poi, naturalmente, la collezione delle effigi ed il culto dei morti che sono poi i vivi dentro di noi.
In un’altra occassione, sempre in relazione a questa ultima ricerca, lei ha parlato di esilio. Ne vuole parlare ancora?
Purtroppo l’esilio è muto. Si è in esilio quando le parole non bastano più, si è ammutoliti. Quando molte cose che ti sembravano importanti sono state schiacciate dal maglio dell’irrilevanza e del sostituibile si rimane muti. Si è accoltellato l’insostituibile e siamo in esilio. Quelle fotografie per me sono icone che vogliono afferrare ciò che si è perduto. Conosco il gioco; anche queste mie parole saranno setacciate dall’inautenticità, dal superfluo. Ma la sfida continua ed è l’unica, quella artistica, ove non venga versato del sangue. A meno che qualche nuova dittatura ha già puntato il dito. Mi spiace che questa intervista prenda una piega pessimistica.
Lei è rivolto sempre all’indietro. Non crede che bisogna fare i conti con l’epoca contemporanea, ci piaccia o no e con il futuro?
Ci faccio i conti spesso, soprattutto per la questione relativa al tempo. Trovo assolutamente anacronistico il clik, ed il doppio clik, del mouse del mio computer quando con questo potrei parlarci. Io credo che stiamo andando troppo lenti. Con questo voglio dire che ci sarà sempre un momento davanti a noi. E poi la contemporaneità può essere diversa per ciascuno di noi. Cosa so io della contemporaneità del pescatore lappone? Come si chiama questo Führer che decide cos’è contemporaneo?
Perchè il colore verde?
Michel Foucault
Quando fecero questa domanda a Truffaut questi rispose che gli altri colori erano già occupati, citando dei films nei cui titoli apparivano altri colori. Anche in un film di Rohmer c’è di mezzo il verde. Non saprei, credo che il verde abbia a che fare con l’organico e i suoi limiti, con il putrescente o con sostanze organiche che ancora non si conoscono. Penso che i marziani siano verdi.
Nuovi personaggi entrano nella camera verde, la sua collezione cresce. Come si costruisce questo lavoro?
Una scoperta, un omaggio, una ricorrenza. Primo Levi dopo dieci anni dalla sua morte ad esempio e con lui la riscoperta della dignità umana, dell’eleganza nella sobrietà. Dentro le cornici che custodiscono i volti appaiono alcuni materiali come le foglie e i frammenti di terra che ho usato per Vosdanik Adoian (Arshile Gorky) per evocare il ricordo della terra armena. Da qui poi un’altra icona dedicata ad un armeno dopo la lettura di Otto grammi di piombo, mezzo chilo di acciaio, mezzo litro di olio di ricino di Harutiun Kasangian, che presento in una sua immagine da bambino stupenda. C’é un filo che lega questi personaggi, dialogano l’uno con l’altro e vorrei che questo si capisse. Ad esempio la recente scomparsa di De Kooning molto legato a Gorky…è una narrazione continua.
In questo modo lei sta un pò costruendo una specie di sua autobiografia o la storia personale di un’appartenenza.
Sono gli orfani i più asidui raccoglitori delle immagini dei morti. Ma al di là del semplice concetto di sostituzione per me questo lavoro è un dono, un modo per oltrepassare la mia individualità e mescolarmi con gli altri donando, in segno di amicizia, queste effigi esemplari ed eleganti. Paradossalmente questo avviene nel modo più individuale e soggettivo che esiste: raccontando se stessi.
Vorrei tornare al concetto di eleganza. Mi pare che lei non alluda ad un fatto esteriore ma a qualcosa di diverso. Cosa trova di elegante in personaggi così diversi?
Artaud ad esempio. Le foto di Denise Colomb a Rodez ci mostrano il grande artista consumato e scandalosamente inquietante, con i denti distrutti dagli elettroshòck e i capelli ormai diradati. In effetti l’eleganza è un dato interiore perchè Artaud appare sempre elegante. L’eleganza è segno di distinzione, è la movenza di chi è straniero sempre, come lo è Artaud. Ci si domanda come bassezza e furore possano coesistere con l’eleganza. Quando si entra nel museo Van Gogh ad Amsterdam si capisce molto bene cos’è l’eleganza. Come lo si capisce in Rembrandt che dipingeva con lo sterco. La Passione del Cristo è elegante, come sapevano bene i manieristi. Oggi purtroppo la parola eleganza è solo appannaggio degli stilisti- artisti. L’eleganza ha il suo fatturato.
Non è un modo per esorcizzare la sofferenza, il dolore, per negare la conflittualità, la follia?
Del dolore non conosciamo che la rappresentazione, anzi la sua costruzione. Il vero dolore è muto e incomunicabile. Chi soffre è azzittito. Anzi è proprio l’essere azzittito, l’essere ammutolito, che produce dolore e follia. La stessa cosa si può dire per l’essere inascoltato che rappresenta l’ammutolito parlante. Scandalo di una voce che non dovrebbe parlare nè essere udita.
Con la sua camera verde lei vuole dunque afferrare il perduto, come trattenerlo e consegnarlo ad un tempo più lungo. E’ una specie di Monumento al Novecento?
Sono ben consapevole dei miei limiti e di quelli del mio lavoro; non mi faccio illusioni. Se per Baudelaire tutto era per metà vero e per metà effimero oggi ci siamo mangiati il restante cinquanta per cento del vero. Anche l’arte passa nel tritacarne micidiale e leggero del futile (“futilizziamoci!” diceva Totò) e bisogna prenderne atto. Poi ciascuno faccia le scelte che vuole . Credere dunque ad un tempo lungo, come lei dice, o all’immortalità, come dico io, è certamente arduo. Però la parola Monumento non mi dispiace, come pure la parola monumentale. In fondo da bambino, a Pescara, in Piazza Cicerone, era proprio un monumento il mio gioco preferito, che utilizzavo come scivolo. Anche il mio monumento al Novecento in fondo è un gioco.
La linea d'ombra
Franco Masotti
(testo scritto in occasione della mostra “La Camera Verde” nell’ambito delle manifestazioni per il Ravenna Festival, Cripta Rasponi, luglio 1997)
Caro Antonio,
si avvicina il giorno della nostra partenza. Abbiamo preparato tutto, meticolosamente, discusso tutti i particolari, studiato tutti i tragitti, le tappe, le mete, ma come sempre in un viaggio si prova quel senso di ansia per lo spaesamento a cui andiamo incontro.
Ogni partenza è un grado zero, una epoché, ci si svuota per essere poi nuovamente riempiti da ciò che vedremo, da ciò che udremo, da quanto incontreremo sul nostro cammino.
Ci porteremo dietro ciò che conta, nulla di più, il resto, ciò che è superfluo, lo lasceremo alle nostre spalle. Rimarranno solo residui di udito, di vista (Hörreste, Sehreste) e dopo aver attraversato in una dolce ansietà d’Oriente il Bosforo-Marmara-Dardanelli che separa l’Europa dall’Asia (ma separa davvero? (aggiungeva l’esule Iosif Brodskij), seguendo le sparse tracce lasciate da Mandel’stam sicuramente il nostro padiglione auricolare si affinerà e si arricchirà di una nuova voluta. Nella nostra valigia troveranno posto solo i libri e quelle foto che tu hai raccolto amorevolmente, con devozione, incorniciate con l’eleganza di altri tempi, che misura il senso del rispetto, dell’ammirazione assieme a quello della lontananza da ciò che ci manca. Sono le effigi dei grandi esuli, dei visionari, degli sconfitti dall’atrocità della storia e dei vincitori sul cieco spirito del tempo, dei naufraghi e degli ebrei erranti. Gli armeni lasciavano la loro terra con i libri cuciti nelle loro vesti, per loro il libro era sacro come sacro era il canto che accompagnava il loro cammino.
Dunque seguiremo vie dei libri e vie dei canti, fino a quando nel nostro mobile orizzonte si staglierà scabro e terribile – ma pure così invitante – il profilo del Caucaso, il nostro Monte analogo. Lì, condannato ad un atroce supplizio, era incatenato Amirani, il “fratello” georgiano di Prometeo, colpevole di avere donato agli uomini il fuoco. Altri uomini ci hanno donato parole, pensieri (e suoni, immagini) che ci illuminano e ci riscaldano nella lunga notte della vita, non li ripagheremo con l’oblio, ma daremo forma alla nostra memoria grata con nuovi/antichi riti, liturgie dell’anima, piccoli ma intensi atti di laica devozione. Per tutto questo ci è necessario il silenzio e la lentezza, che anche tu ami e persegui nel tuo lavoro ostile al rumore che tutto annulla e rende identico, ed alla velocità.
Vorrei condividere con te queste belle parole di Kundera (leggendole non ho potuto non pensare alle tue pagine sulla lentezza):
…dar forma a una durata è l’esigenza della bellezza, ma è anche quella della memoria. […] C’è un legame fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio… il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio. […] La nostra epoca si abbandona al demone della velocità ed è per questo motivo che dimentica tanto facilmente se stessa. Ma io preferisco rovesciare questa affermazione: la nostra epoca è ossessionata dal desiderio di dimenticare, ed è per realizzare tale desiderio che si abbandona al demone della velocità; se accelera il passo è perché vuol farci capire che ormai non aspira più ad essere ricordata; che è stanca di se stessa, disgustata di se stessa; che vuole spegnere la tremula fiammella della memoria. É questo lo spirito che aleggia nella tua “Camera verde”, appena vi sono entrato non avrei più voluto uscirne, hai creato una dimora silenziosa per le nostre comuni memorie, per le nostre affezioni. Le hai volute generosamente condividere con altri compagni di strada invece che tenerle solo gelosamente custodite dentro di te. In questo non hai tradito affatto la tua missione di “scultore”, nel senso che Heidegger dava alla parola scultura, intesa come “libera donazione di spazi”. Ma ho ritrovato anche qualcosa dell’amato Tarkovskij, perché hai saputo “scolpire il tempo”, occuparne la durata scandendola in questa teoria di mute effigi di “testimoni del tempo”.
L’importante, in fondo, è ritrovare il tempo, e non lasciarlo così come lo si trova. Concludo questa mia lettera con queste frasi di Maria Zambrano che sanno cogliere con lacerante esattezza lo spirito dell’esilio (ricordi Exil di Kancheli?), come condizione universale dell’esistenza:
Comincia, l’iniziazione all’esilio, quando comincia l’abbandono, il sentirsi abbandonato; cosa che al rifugiato non accade e allo sradicato nemmeno. Peregrinazioni tra le viscere sparse di una storia tragica. Nodi multipli, oscurità, e qualcosa di ancor più grave: l’identità perduta che reclama riscatto. E ogni riscatto ha un prezzo. […] L’esiliato si azzittisce, si rifugia nel silenzio per il bisogno alla fine di rifugiarsi in qualcosa, di addentrarsi in qualcosa. Ed è che, procedendo senza patria né casa, procede fuori di sé. […] A picco sull’orlo del suo abisso pianeggiante, là dove non ci sono strade, dove la minaccia di essere divorato dalla terra non si fa nemmeno sentire, dove nessuno lo richiede né lo chiama, errabondo come un cieco senza orientamento, un cieco che è rimasto senza vista per non avere dove andare. É il divorato, divorato dalla storia. L’esiliato è colui che più assomiglia allo sconosciuto, colui che, a forza di portare all’estremo la sua condizione, arriva a essere quello sconosciuto che c’è in ogni uomo e che il poeta e l’artista non riescono se non molto raramente a scoprire. […] L’aridità, il pianto…
Non si sa se è dallo sradicamento, o dall’esilio che in esso si viene acquistando, che quell’aridità proviene. Aridità di terra senz’acqua, di deserto senza frontiere e senza miraggi. il miraggio della sorgente che consente di bere in sogno. Di sradicamento in sradicamento, in ciascuno di essi l’esiliato va morendo, spossessandosi, sradicandosi. E così, ogni volta che riprende ad andare, si reitera la sua partenza dal luogo d’origine, dalla sua patria e da ogni possibile patria… Cammina, il rifugiato, tra macerie. E in esse, tra di esse, le macerie della storia.
Maria Zambrano, “L’esiliato” [da: I beati, Milano, Feltrinelli, 1992]
………………………………………………………………………………………………………………………….
Valeria Tassinari
E’ fin troppo eclatante che nell’arte contemporanea di questa fine secolo si sta affrontando, con modalità esplicite, il tema della morte. E se questo non costituisce certo un elemento di particolare novità rispetto ad analoghe manifestazioni che ciclicamente hanno scandito la storia dell’arte, è certamente vero che quello che storicamente è sempre stato un punto di riferimento forte per culture centrate sull’analisi filosofica della condizione umana, cede oggi alla debolezza di trasformarsi in una sorta di soggetto per esercizi di estetica.
Un estetismo “cattivo”, naturalmente, più crudo quando è levigato rispetto a quando è cruento, comunque indebolito dal compiacimento del dato anatomico, della morte come condizione corporea affrontata in quanto ultimo, estremo, tabù da violare con lo sguardo. Ma ciò che oggi è il vero tabù resta di fatto inviolato. L’inviolabile, l’innominabile, è la riappropriazione di una cultura della morte, di cui non sappiamo ritrovare le fila laddove-in apparente assenza di una cultura della vita di ampio respiro-si sono spezzate.
E’ una considerazione da cui non si può prescindere davanti all’installazione di Antonio Marchetti, che nel suo riempire di presenze il senso della morte coglie bene la necessità di questo slittamento dei termini della riflessione. Partendo da un’istanza totalmente privata, l’autore ha allestito un altare per il culto dei morti, staccando ogni rapporto con la sociologia ed il tempo reale. Per andarsene con il senso dell’abbandono potrebbe bastare, ma ad avvicinarsi quei ritratti prendono inaspettatamente un nome anche per noi, e davanti ad almeno uno di loro si vorrebbe accendere una candela, Yourcenar, Duchamp, Benjamin, Van Gogh, Artaud, Klee, Pasolini, Boetti, Kandinskij, Barthes, Conrad, Roussel, Campana….. Mai conosciuti eppure così presenti, nella vita delle nostre ultime generazioni. Non conta la loro ombra, che si è perduta, ma il segno che hanno lasciato, per cui li riconosciamo e sono ben vivi, ancora al centro della nostra cultura.
Naturalmente c’é anche Truffaut, alla cui Chambre verte l’opera è ispirata, e dedicata. Quel Truffaut ossessionato dall’ incapacità di perdere definitivamente il contatto con le ombre, perchè consapevolmente arrivato al punto della vita in cui ci si accorge di conoscere più morti che vivi. Potrebbe essere esattamente il punto in cui è arrivata la cultura artistica occidentale, che oggi frequentiamo, ognuno nella propria camera verde, senza timore, nè rassegnazione.
……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………..
La Camera verde è una collezione di volti, custoditi da domestiche cornici, e di oggetti che costituiscono i riferimenti della formazione dell’artista. E’ il risarcimento che i vivi devono ai morti, come nel film di Truffaut (La chambre verte ) a cui la ricerca si ispira. E’ un omaggio al moderno nella forma di un’appartenenza che si apre agli altri raccontando se stessi. E’ il racconto degli artisti attraverso i volti, le storie, gli oggetti, le relazioni, in una atmosfera di sacralità devozionale. La Camera Verde è l’idea di una possibile e immaginaria patria. E’ luogo della memoria europea.
“Lei ha girato La camera verde, ma perché il colore verde è così importante?
Perché tutti gli altri erano già occupati. C’è un romanzo di Simenon intitolato La chambre bleue, ce n’è un altro intitolato La chambre rouge. In realtà credo sia perché in Inghilterra esiste l’espressione “green room”. E’ uno spazio dove gli attori aspettano prima di entrare in scena. Questo spazio, nei teatri degli altri paesi non esiste e neppure in Francia. L’attore è nel suo camerino. Si bussa alla porta e gli si dice “Tocca a te”, allora si parte. In Inghilterra invece, c’è questa “green room” che è una specie di sala d’attesa.
E’ la sala d’attesa che precede la morte…
Sì, certo. Il verde si adatta bene alla morte.”
( Y.Unemoto, T. Deguchi: Intervista con François Truffaut, 1982)
Marzo 29th, 2010 § § permalink
Galleria Gianfranco Rosini
Antonio Marchetti disegna, progetta, realizza in ferro, lamiera, e terracotta una serie di “quasi” utensili – e nell’avverbio “quasi” è espressa sia la distanza esistente fra i suoi utensili “quasi” e gli utensili veri, sia la loro specifica essenza. Non so se siano effettivamente funzionali; ma mi sembra che potrebbero benissimo esserlo: né la loro conformazione né i materiali di cui sono fatti contraddice veramente la loro funzione eventuale. E tuttavia restano senza dubbio dei “quasi” utensili per il fatto che in loro l’aspetto esterno si presenta di gran lunga più importante della funzione.
Galleria Cesare Manzo
Ci troviamo di fronte a degli oggetti-personaggio di taglia gigantesca – anche nei disegni di piccolo formato le dimensioni si mostrano sempre al di sopra della norma – cresciuti in maniera spropositata, tesi nei loro corpi cilindrici, da cui fuoriescono becchucci lunghi quanto è lungo il naso del bugiardo Pinocchio. L’ormone forse impazzito responsabile del loro sviluppo irregolare si rivela di natura psicologica-sentimentale. Questi utensili possiedono un senso eccessivo di se stessi; sono visibilmente caratterizzati da ipertrofia del proprio io; hanno una considerazione esagerata della propria persona. Diciamo che si prendono veramente sul serio, cosìtutto il loro aspetto e il loro contegno appare improntato da un sentimento diffuso di sussiego e di affettazione. La caffettiera e la teiera si presentano chiuse in una sostenutezza molto “collet monté” e i tavolini, quelli sgombri come quelli su cui gli utensili stanno appoggiati, s’innalzano sulle loro gambe con i peducci articolati verso l’esterno come ballerine impegnate nell’assolo di qualche “morte del cigno” – che è poi la quintessenza kitsch della musica romantica.
Marchetti dà ai suoi “quasi” utensili svariati titoli, ma due soprattutto mi sembra che li definiscono con penetrazione. Il primo è il nome di “single”, “singolo”, che è una categoria umana emersa nel costume e messa a fuoco di recente dalla sociologia e dalla letteratura: essa sta ad indicare, come è noto, gli uomini e le donne che hanno scelto di proposito di vivere soli. Con il valore di rottura e con i contenuti psicologici che una simile scelta porta con sé. E’ veramente “single” è una parola efficace per specificare lo spirito d’indipendenza che anima questi utensili.
L’altro titolo infine è “song”, “canto”: l’accostamento di questi oggetti formanti un terzetto ricorda un trio di cantanti che, con impegno e spocchia, eseguono una canzone molto sentimentale degli anni trenta. Il risultato di tutti questi ingredienti non può che appartenere al genere dell’umorismo. L’unione di sostenutezza psicologica e di effetto comico dà come somma tangibile l’obesità degli uni e la rigidità degli altri. Una teiera in ceramica molto panciuta reca appunto il titolo di “obesa”. Dovendo caratterizzare con un aggettivo questo umorismo, impiego senza alcuna incertezza l’aggettivo “bianco”: umorismo bianco di cui l’altissimo esempio resta quello di Buster Keaton. Un che se impiegato con un minimo di prudenza e con qualche distinguo ci aiuta a definire l’umorismo di Marchetti e il posto che occupa l’assortimento dei suoi “quasi” utensili. Uno dei grandi temi di fondo del grande cinema muto è l’incapacità dell’uomo di impiegare correttamente e con disinvoltura i nuovi prodotti di serie messi a disposizione dalla tecnica e dall’industria. E dall’uomo, dalla sua palese imperizia che scaturisce la scintilla bianca dell’umorismo nel “Navigator” di Keaton, ma non affatto dagli utensili che permangono chiusi in loro stessi, forse soltanto troppo caparbi ed indecifrabili.
Galleria dell'immagine, Rimini
Non è dunque un questa direzione che dobbiamo rivolgerci per cercare un’ affinità fra l’umorismo di Marchetti e quello cinematografico, ma sempre in direzione del film di animazione, dei cartoni animati. Qui incontriamo sovente un umorismo legato esclusivamente agli oggetti e al loro comportamento, del tutto indipendente da qualsiasi eventuale intervento da parte dell’uomo. Presentati volentieri quali controfigura di caratteri molto umani, gli oggetti acquistano la consistenza di veri e propri personaggi, di due fondamentali temperamenti: di temperamento maligno (che non è il caso degli utensili di Marchetti) oppure presuntuoso, serioso, molto contegnoso (e qui invece ci siamo).
I “quasi” utensili creati da Marchetti sembrano ignorare l’uomo, la sua inettitudine o la sua acquistata bravura nell’impiegarli. Sono diventati autonomi: giocano la loro commedia, cantano, ridacchiano per conto loro. Incredibilmente felici, amano adornarsi di bandierine, appese in alto, come sopra pennoni, oppure in basso, attaccate alle gambe dei tavolini di sostegno, come le ali del dio della fortuna Mercurio. Rassicuriamoci: non ci troviamo davanti ad una ennesima rivolta degli oggetti, a quasto classico motivo nel repertorio dell’avanguardia: assistiamo semmai molto meno drammaticamente alla loro bonaria secessione.
Alberto Boatto
La ‘secessione’ degli oggetti. (Courtesy Ass. Italo Francese Alliance Francaise, Bologna. D. Montanari editore. 1991)
Galleria Balena, Rimini
Utile asse di equilibrio divide, ma collega anche, già da tempo scultura e design, architettura e pittura, arti “pure” e arti applicate; Lo spirito inventivo crea poi sull’ambiguità dei rimandi parentele non previste che complicano il gioco introducendo elementi secondari capaci di interesse, a loro volta, trame e consentire sviluppi, ed è qui che si colloca il lavoro di Antonio Marchetti.
Così, ad esempio, l’uso di un certo materiale caratteristico, che ne include altri più consueti, ha come complice dell’inganno un segnale linguistico, magari solo un titolo, a richiamare mediante l’allusione alla forma una scherzosa edizione della scultura oggetto. Oppure la pertinenza stessa del materiale suggerisce una trasmissione di referenti che colloca l’oggetto come rappresentazione. Non si tratta in questi casi di inventare sfide programmatiche utilizzando linee moderne per rilanciare improbabili riprese storicizzanti. Qui la forma è assunta in quanto tale senza ammiccamenti al moderno, piuttosto verso una smodernizzazione che invece di saltare al povero o al primitivo accetta la regola del dato ipotetico e tangibile per svolgersi su quel campo elastico che si stende fra prodotto e consumo: consumo che sembra però elegantemente eluso a vantaggio di una forma autosufficiente, compiaciuta, che si afferma con energia perentoria qui e ora.
Tra Single e Song, raffinate costruzioni che sembrano smentire nella loro sofisticata snellezza (anche “Obesa”) la responsabilità di un formato tutt’altro che ridotto, ironizzano su se stesse puntando proprio sulla proporzione, sull’inefficienza, insomma sul nonsense.
Galleria Cesare Manzo, Pescara
Vittoria Coen
“Cento piccoli” single (Courtesy Galleria Gian Franco Rosini)
……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………..
Antonio Marchetti propone oggetti irriverenti, riaffermando la propria consuetudine nello sperimentare la contaminazione tra design, scultura e pittura. I suoi Singles, caffettiere, tavolini, strani insiemi d’arredamento, negano costantemente la propria natura d’uso per umanizzarsi in gesti beffardi.
Incredibilmente fingono anche di essere disponibili all’uso fornendosi di ragionevoli attributi , e tuttavia vivono nella disobbedienza o, in ogni caso, in una dimensione che che non ha altra intenzioni se non quelle dichiaratamente ludiche.
Così i tavolini non mancano di gambe, ma solo per stare in punta di piedi come ballerine, nè sarebbe facile una funzione a teiere e caffettiere in partenza su gioiosi carrettini o agli improbabili lego, strani insiemi di ruote, piccole bandiere e altro. Macchine impossibili, inutili, Macchine Singles, le chiama Marchetti, macchine che, seppure non intendono mostrare l’onnipotenza delle celibi, come queste si dichiarano simulacri autonomi e incomprensibili.
Single freak
Ma Single è il titolo anche di molti altri lavori, e dunque unico, solo, individuale, il che ha tutta l’aria di voler raccontare l’impossibilità della dimensione pubblica, di relazione (ricordo il Doppio single, un divano a “esse”, a due posti, ma sulla base di appoggio qualcosa di molto appuntito rendeva estremamente pericolosa l’eventuale decisione di sedersi e magari conversare).
Come per Kierkegaard, l’esistente è il singolo, è l’individuo, solo nella sua singolarità . E tuttavia gli aspetti angoscianti che potrebbero derivarne vengono immediatamente sdrammatizzati dall’artista. I suoi oggetti, umanizzati per quel loro atteggiarsi beffardo e un po’ vizioso, affidano nel divertissement le contraddizioni dell’esistenza, giocano con le proprie ombre, a volte addirittura le arricciano, diventano insieme cento, ognuno con la propria solitudine buffona. Per sedurre.
Cristina Marabini
Single rompu
.
"Cento piccoli single", Galleria Gianfranco Rosini
… Il “vizio” di fondo, il carattere connotativo che lo distingue, l’angolosità e l’acutiforme permangono come segni genetici irriducibili e ricchi di infinite variazioni tematiche e simboliche. A guardare questa oggettistica delicatamente colorata (ecco, la delicatezza è cosa nuova in questo artista) in grandi carte ad acquerello, fatta tutti di minuti scomparti, ognuno con un oggetto, sembra vedere la parodia di una enciclopedismo illuminista, pignolo, maniaco e anche vano, alla Bouvard e Pécuchet, per intenderci. Una parodia del collezionismo.
Piccoli single, Galleria Gianfranco Rosini
Oppure un politico logorroico e laico nelle cui infinite valve che narrano storie enigmatiche si intravvedono i fantasmi di un surrealismo mattacchione che richiama le assurde “cose” di Depero. Gli oggetti, poi, si metamorfizzano: sono caffettiere, giocattoli, trenini, cassette, dischi volanti che diventano impercettibilmente altro, cose senza senso, oggetti di un universo onirico o esoterico. Mentre il tono, il sottofondo della mostra ridacchia sommesso, è scherzevole, eppure certe asperità , certi aspetti, una certa atmosfera grafica ci inquieta un po’ dentro; forse, è l’alienazione burlona studiata a tavolino, col dono della grazia.
Ivo Gigli
"Los trios"
Single in costruzione
"Trios"
"Fuori uso", ex Aurum, Pescara
Marzo 16th, 2010 § § permalink
.
.
“Vario son da me stesso”
Per Antonio Marchetti artista, è quasi impossibile identificare una valida definizione.
Potremmo considerarlo un eclettico per eccellenza, una sorta di intellettuale in cui il pittore, lo scultore, lo scrittore, l’editore, convivono in maniera singolare; l’importante esempio di un artista che non rifiuta la parola e non si rifugia nel mutismo per lasciar parlare le opere, secondo una vecchia concezione estetica.
"Konzert"
Tutta la sua attività sta a confermare la capacità grazie al dono dell’ironia, di spaziare in campi d’indagine diversi, con risultati sempre efficaci ed originali.
Ho conosciuto Antonio alla fine degli anni Settanta durante le lezioni di Storia dell’Arte all’Università di Pescara. Lui frequentava Architettura, io Lingue. I nostri approcci erano diversi anche se comune l’interesse per l’arte. Nel 1985 l’ho ritrovato a Pesaro, alla Galleria Deposito Figure, dove presentava la rivista “Stilo”. A quel tempo già cercava di non assecondare lo stereotipo dell’artista unicamente assorbito dalla sua ricerca estetica. Dipingeva e nello stesso tempo dirigeva una tra le più intelligenti e particolari riviste apparse nella baraonda cultural-consumistica degli anni ’80. Scoprii più tardi che essa era funzionale sia alla sua continua voglia di conoscenza che alla sua indomita necessità di dialogo e confronto. “Stilo” è stato un punto di incontro culturale, realizzato con grande sforzo e partecipazione da un artista che avvertiva come la conoscenza vera avesse bisogno del fare concreto, dalla progettualità realizzata.
Due anni più tardi una personale alla Galleria Manzo di Pescara, “Mimetico e Leggero”, presentata da Giacinto Di Pietrantonio, mi rivelava la sua produzione pittorica. I dipinti esposti sembravano ridursi in due tematiche principali: una che definirei poetica degli interni (nature morte, oggetti colti in momenti particolari con luci che regalavano alla loro immobilità un presentimento di vita segreta), l’altra che evocava spazi siderali, luoghi dalle tonalità notturne in cui si descrivevano comete di passaggio in spazi infiniti.
Tra queste una mi aveva colpito, lo “Psiconavigante”. Marchetti in questa opera rappresenta mirabilmente un personaggio sospeso in uno spazio astratto, in cammino dentro i notturni meandri della psiche, mentre viene colto da un’intuizione improvvisa, un’epifania. Un’opera in cui la concentrazione dell’attimo e l’accenno al continuo fluire degli eventi vengono rappresentati in una sintesi ammirevole. Ne fui affascinato, l’acquistai e oggi contrappunta molti dei miei attimi quotidiani.
Da quel momento, lo sviluppo dei nostri incontri e delle rinnovate discussioni si sono accordati a quello della sua ricerca e della mia conoscenza di essa. Alla fine degli anni ’80 Marchetti ha spostato l’azione verso la scultura ed il disegno che, in ogni caso, si riallacciavano con coerenza alle precedenti esperienze pittoriche. Appaiono i “Single”, oggetti scultura usciti da alcuni suoi dipinti per materializzarsi tridimensionalmente nello spazio. Potrebbero essere concepiti come “caffettiere” ma sapendo che il termine esprime la produttività della macchina, il funzionamento autosufficiente, il meccanismo di singolarità. I “Single” di Marchetti sono anche oggetti-personaggio, elementi non imbrigliati nella loro staticità decorativa, ma unità capaci di trasformarsi in particolari emblemi carichi di accordi e suoni segreti.
Museo dell'arredo contemporaneo. Russi, Ravenna
Altra caratteristica della sua ricerca è l’importanza attribuita al disegno come espressione originaria e come principio basilare del progetto preordinato. Il disegno per Marchetti non è soltanto appunto progettuale, primo abbozzo per opere successive, ma si fa spazio autonomo di indagine. Egli potrebbe fare sua la frase di Goethe: “quello che io non ho disegnato non l’ho visto”; il disegno come strumento che permette all’atto stesso di concretizzare l’intuizione. In molte opere dell’artista il titolo assume grande rilevanza, rappresentando il legame evidente con la sua passione per la scrittura; nei dipinti e disegni non appare come semplice cifra grafica, ma come segnale di evocazione. Nelle sue opere il titolo non risulta mai banalmente esplicativo o straniante, direi piuttosto che aumenta o rafforza il senso sotteso, una sorta di evidenziatore semantico. Con l’evoluzione della sua ricerca l’interesse critico per la sua produzione aumenta.
Tra le mostre più importanti ricordiamo: “Materialmente”, (una riflessione sulla scultura degli anni ’80) curata da Cristina Marabini e Dede Auregli alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna, le personali “Disegni e sculture” alla Galleria dell’Immagine a Rimini e “Cento piccoli Single” alla Galleria Gian Franco Rosini presentata da Vittoria Coen. Pubblica per le Edizioni Essegi, “Plateau”, con un testo di Alberto Boatto. La sua ricerca, all’inizio degli anni ’90, si sposta verso la riflessione sul sottile meccanismo del gioco combinatorio. Piccoli disegni che, assemblati, creano un puzzle o arazzo; elementi che, mentre si riducono a formule geometriche essenziali, sottintendono la possibilità di combinazioni complesse. Un gioco ironico e sottile dove le miniaturizzazioni si assemblano come in un movimento prolifico per rivestire grandi superfici.
L’ultima sperimentazione dell’artista privilegia l’installazione, coinvolgendo tutto lo spazio in cui interviene. Ad “Anni Novanta”, la mostra curata da renato Barilli, egli precisa in maniera originale questo suo approccio. In un affascinante ed eterogeneo insieme, egli sistema anche a terra cento piccoli “Single” di cartone su cui scrive cento diversi titoli in un gioco di nominazioni differenti, mentre a parete campeggia una frase di Arcimboldo restituita dalla gioiosa libertà dell’acquerello: “Vario son da me stesso”. Una frase che per Antonio Marchetti rappresenta anche una carta d’identità.
Umberto Palestini
………………………………………………………………………………………………………………………………………………………..
La mia casa.
“Quando parto mi porterei via tutto”, dice Giuliana, personaggio chiave, in “Deserto Rosso” di Antonioni.
È riposto in questo pensiero il senso di un mancamento, di un’insufficienza di ciò che saremmo, privati delle cose; esse ci rappresentano, ci testimoniano, anche nella nostra assenza; come, al contrario, possono divenire permanenza espropriata al nostro venir meno.
Nel riconoscimento empatico di sagome familiari, assunte come cifrario, come sistema, come sistema di segni prende forma, nel frammento, l’opera di Antonio Marchetti. L’opera come l’esistenza si dà in una pluralità di parti, dunque, il frammento innanzitutto è una modalità di esserci, implica una scelta.
"Disk"
Tra le prioritarie ed antiche urgenze del linguaggio, vi è quella di fare dell’immagine, della scrittura il luogo fisico di ciò che ci appartiene, ancora prima di qualsiasi operazione di trasferimento simbolico, di reinvenzione astrattiva del mondo. Questa reciprocità, questo suo valore primario, archetipico, essenziale trovano una ragione d’essere fondamentale, oggi, nell’endemica proliferazione dei linguaggi, che in un paradosso epocale produce un disagio comunicativo, una condizione di carenza espressiva. Sempre più vistosamente è dato assistere ad un processo di elusione, più o meno volontario del reale ad opera del linguaggio; pare che esso campeggi quale momento autonomo, scisso dal pensiero, dai sentimenti, abbia perduto la sua funzione di conoscenza, di possesso; abbia prevalso il suo carattere degenerativo, di inganno, il suo uso politico nella forma del brusio.
Eppure quella cosa, quel corpo che è linguaggio siamo noi. In esso è dato riporre, in un accumulo lento, in un sedimentarsi, ritmato dalle frequenze del nostro respiro, nel differente accordo con l’esistenza, le tracce, i labili segni del nostro passare. In esso la volontà di resistere nel tempo che seguirà alla nostra morte.
Le cose siamo noi: quasi sfacciata e arrogante la loro persistenza.
L’immagine si fa oggetto, lo accoglie per rifondarlo. Io sono sempre diverso nell’atto di questa operazione; nel mostrarci, l’opera ci parla della nostra differenza nella continuità.
Le bandierine, le caffettiere, le piccole case, come i dischi volanti di Antonio Marchetti sono caratteri, parole chiave che strutturano il discorso poetico, la pars destruens, ironica oltraggiosa, un po’ malata, deviante, in rivolta contro l’altro, che, anche, è in noi.
È stata detta “parole”, “scrittura” questa componente eccedente del linguaggio, che il poeta flette nella lingua e la plasma, la fa propria.
"Tre case"
In questa forza di coesione, in questa tenuta è data l’opera, la sua durata. Essa si fa riconoscere, dandosi tra vari estremi: dall’irripetibilità del single, presente nel frammento, alla sua abdicazione quasi sacrificale nel molteplice; dalla massima invasione dello spazio alla sparizione entro un piccolo contenitore, dalla superficie all’oggetto, dall’immobilità del trenino di terracotta, all’animazione un po’ perversa degli utensili, degli oggetti meccanici che si innervano sul piano del supporto, protestando del luogo, in attesa di variare posizione, insofferenti del mezzo che ha dato loro forma.
L’opera di Antonio Marchetti è reattiva nei confronti del presente e al contempo comprensiva. Si mostra, in una tensione progettuale del reale, ben cosciente della prorpia autonomia e inattualità. Il cambiamento delle coordinate contestuaali determinerà una nuova messa in scena o se vogliamo una mise en abîme: l’esibizione scenica comporta un rischio estremo, né il gioco è meno pericoloso; il suo carattere di non necessità rende l’opera aperta ad un possibile. Le tessere di acquerelli, nel loro proliferare, nell’insorgenza di segni pescati dall’immaginario quotidiano, dell’infanzia, appaiono, sono evento colorato che vibra alla luce, figurine per giocare e da scambiare.
"Cento single"
Ma il più impercettibile turbamento farà aumentare la loro già connaturata mobilità, e da composte e ben ordinate potrebbe darsi che assumano posizioni irriverenti, si capovolgano, si ribaltino, cadano ad una ad una nella scatola destinata ad accoglierle; nella loro leggerezza, nella consistenza di cartoncino sottile è implicita l’idea di una moltiplicazione, come di una scomparsa; tutto può darsi nell’immagine, in questo doppio.
Nell’apparente divertimento del gioco, l’innocenza è perduta.
La levità del piacere visivo contiene ma certo non sovrasta l’inquietudine della ripetizione; nello spostamento impercettibile, nella variazione lenta, non nella notte ma nell’ordine del giorno, nella precisione del tratto, nella liquidità tersa del colore si stende l’ombra qualche piccololo scelus.
Virginia Cardi
© Galleria d’arte Balena
"Face"
.
Galleria Balena, Rimini
"Vetrata"
Teatro Petrella, Longiano. Mostra "A Teatro!"
"Freaks", Galleria Gianfranco Rosini
Le Navi, Cattolica. "Anni Novanta"
.
———————————
«Vario egl’è da se stesso». A tu per tu con Antonio Marchettidi Marina Mannucci
«Come la melanconia è la tristezza diventata leggera
Così lo humor è il comico che ha perso la pesantezza corporea»
Italo Calvino, Lezioni americane
Erano un po’ di mesi che pensavo ad un’intervista ad Antonio Marchetti; la consapevolezza delle mie inappropriate conoscenze in campo artistico mi ha però indotto per lungo tempo a frenare i miei entusiasmi. L’urgenza di poter testimoniare l’opera di questo artista che ha vissuto, lavorato e realizzato importanti progetti sia artistici che culturali a Ravenna, mi ha infine convinta ad “azzardare”; ho pensato che avrei potuto superare furbescamente il mio ostacolo “intellettuale”, limitandomi a concentrare l’intervista su alcune domande che facessero ricadere completamente su Antonio l’onere del “raccontare”. In tal modo, non solo ho schivato le fondate remore, ma ho anche avuto la certezza di regalare ai lettori una testimonianza importante sia dal punto di vista artistico che dell’esposizione dei contenuti. Antonio Marchetti, «flâneur sulla spiaggia deserta», oltre «ad essere cattivo, con un’ironia da retrobottega, riservata al buon palato, coltivare serpi in seno e sputare su dio e sui santi non dimenticando donne e bambini che sempre andrebbero salvati (e per primi), oltre a non amare il vicinato e ad essere fedele alla linea che non c’è», come scrive Simonetta Melani su «Il Grandevetro», ha infatti il dono, assai raro, di scrivere nel modo unico, essenziale ed esaustivo di chi nasce dotato di quel talento che trasforma il pensiero astratto in simboli scritti non lasciando che nulla si perda nella trasposizione.
Antonio, iniziamo con il racconto del tuo arrivo a Ravenna e dell’impatto col “vivere” e l’essere artista in questa città criptica e ipnotizzante?
Sono arrivato a Ravenna alla fine del 1981. C’era un posto al Liceo Artistico. Venivo da una città ove per avere un certificato facevi una richiesta e lo ritiravi giorni dopo, mentre qui l’impiegata comunale mi richiamò: “dove va? aspetti 5 minuti e le consegno la nuova residenza”. A Pescara la domenica mattina ci si vedeva in piazza, qui invece la piazza era vuota: dove si nascondevano i ravennati? Fascinazione e distanza hanno accompagnato il mio soggiorno in questa enigmatica città, quasi 14 anni. Fascinazione per la nebbia avvolgente che prepara apparizioni (io l’ho sempre vissuta, la nebbia, come cifra erotica…), per la bellezza dei suoi monumenti e l’efficenza dei servizi al cittadino, per il temperamento delle sue donne con un’emancipazione superiore al resto del Paese, per la qualità dell’istruzione che mio figlio ha avuto la fortuna di usufruire sino all’adolescenza. Distanza perché tutto mi appariva sin troppo organizzato e ingessato, con molte contraddizioni: “comunismo” con alto senso della proprietà, culto del dialetto ed intrusione culturale quasi proto-leghista, diffidenza verso l’altro, verso l’extramuros, scarsa possibilità di iniziativa individuale visto che tutto era cooperativa (persino i bar), tutto partito o, in alternativa, massoneria. Eppure pian piano, questa città ti sa dare anche molto, e per me questo è stato importante perché non ho mai scelto un’appartenenza, pagando prezzi anche alti sul piano personale ed artistico. Con l’incoscienza che si ha da giovani fondai una rivista, «Stilo», che mi ha dato la possibilità di conoscere artisti ed intellettuali di fama internazionale. L’esperienza si concluse con il convegno “L’immagine della Terra” a Palazzo Corradini ove allestii una mostra di Mario Giacomelli, la sua famosa serie “Storia della terra” (credo fosse la prima volta per Ravenna). Nel tempo ho avuto due studi in città, ma come artista ero invisibile, extracomunitario, non ho mai esposto a Ravenna (a parte una piccola cosa da Danilo Montanari nel suo spazio vicino Piazza del Popolo). Quando negli anni Novanta mi sono trasferito a Rimini ho fatto la mia prima mostra ravennate in Santa Maria delle Croci (si intitolava “Costruzione del dolore”). Insomma dovevo andare via per far qualcosa in città. Poi ci fu l’invito di Franco Masotti per il Ravenna Festival nel ’97 con il suo progetto “Transcaucasia” a cui partecipai con l’installazione “La Camera verde” nella Cripta Rasponi e con il mio “Ascoltando Kancheli”. Aggiungo la bella avventura intellettuale del Circolo Gramsci, che considero un’esperienza formativa in cui mi sono anche divertito molto, notevole libertà, mi sentivo quasi sdoganato pur non avendo la tessera del Partito, un’esperienza per Ravenna quasi unica, in un crinale storico ove forse ciò era possibile, impensabile oggi con la stessa scioltezza audacia e senso giocoso, pur affrontando tematiche molto serie ed epocali, alcune profetiche…
Alcuni amici di allora sono rimasti tali e con loro ogni tanto si fa qualcosa insieme. Con Alberto Giorgio Cassani abbiamo una collaborazione da anni, Gian Paolo Solitro documenta fotograficamente il mio lavoro da oltre 25 anni, ha quasi tutto il mio archivio. Per me Ravenna è ancora una risorsa della mia esistenza, e del mio lavoro. Ci torno sempre volentieri e le cose negative con il tempo si stemperano lasciando in risalto quelle positive. Sarà l’età, non so…
Quindi del tuo soggiorno a Ravenna, nel ricordo, è inevitabile un intreccio di persone, situazioni e luoghi, le cui sfumature variano nel tempo?
A Ravenna ho conosciuto e lavorato con bravissimi artigiani. Con un anziano fabbro di Mezzano realizzai diversi lavori scultorei e con Ricardo Casciello, che lavorava all’epoca nei cantieri navali, ho realizzato un “single” (così si chiamavano i miei lavori negli anni Ottanta) gigantesco, in lamiera zincata, esposto alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna nella mostra “Scultori degli anni Ottanta”. A Faenza ho ripreso il lavoro con la ceramica che avevo conosciuto da ragazzo a Francavilla al mare, vicino Pescara, da uno scultore ceramista presso il quale mia nonna d’estate mi mandava per tenermi occupato. Dopo Faenza è venuta la conoscenza della provincia di Ravenna e delle sue terre più estese, una rivelazione. Bagnacavallo, Lugo, Comacchio, Porto Garibaldi, la struggente e melanconica, d’inverno, Casal Borsetti; la campagna, infinita, nebbiosa e notturna con fantasie di vite clandestine e letterarie. Nei viaggi tra i luoghi erano i vuoti spaziali da colmare per arrivarci ad affascinarmi di più, ma non erano vuoti, erano esperienze. Un dipingere con gli occhi. Nelle saline di Cervia i tramonti d’ottobre sono mirabili, nella foce del Bevano c’era una Iliade miniaturizzata. In questa conoscenza più “profonda” e “rivelatrice” del paesaggio ravennate (ancora per poco l’orribile parola “territorio” teniamola a distanza) ho vissuto nuovi e inaspettati amori. A questa città apparentemente statica io corrispondevo con i miei anni più avventurosi e rischiosi, direi dai trenta ai quarant’anni. Questa è l’età, per un uomo ed un’artista, della massima forza e potenza (e incoscienza), ma sono anni anche critici; qui si costruisce la consapevolezza ed un possibile futuro.
Però mi è mancato il mare. Al mio primo arrivo in stazione vidi i ponti delle navi sopra i profili dei treni. Sorprendente. Ma non era il mare, il “mio” mare. Il mare lo ascriverei alla categoria della distanza. C’era, ma non all’orizzonte, e non a portata di bracciate, e soprattutto mi appariva come rimosso. Ravenna è città di “terra”. Come la sua cucina.
Negli anni Novanta, poi, la mostra curata da Renato Barilli: un evento importante.
Mi chiedi della mostra anni Novanta di Barilli. Scusami se rispondo prendendola larga. Gli anni Novanta, non dimentichiamolo, si aprono con guerre, nazionalismi e odi etnici, e con la cosiddetta prima guerra del golfo. Nel 1988 feci un viaggio in Unione Sovietica, in piena crisi di regime, e conobbi quasi casualmente un folle e affascinante Evgenij Evtušenko che stava girando un film su Stalin; mi sembrava che tutto fortunatamente si stesse sfaldando, tutto si rimescolava… io ho vissuto quei due anni dal 1988 al 1990 in modo quasi febbrile sul piano creativo, esistenziale, politico. Nel 1991 ho cambiato vita dal punto di vista familiare, ripartendo quasi da zero. Mi ero appassionato ad Hannah Arendt e decisi una volta tanto di rivolgermi al Partito, non conoscevo nessuno, per proporre una iniziativa sul suo pensiero. Mi dissero che c’era un giovane che voleva ricostituire un ormai morto Centro Gramsci in città. Mi incontrai alla “Ca’ de Vèn” con un ragazzino di nome Alberto Cassani infilato dentro una divisa da vigile del fuoco. Da lì nacque il Circolo Gramsci, con il logo realizzato e donato da Claudio Bartolucci di Pesaro. Ci tengo a “ridire” questo perché le memorie vanno scomparendo e la politica le uccide. La mostra alle ex colonie “Le Navi” di Cattolica per “Anni Novanta” dell’ineffabile Barilli per me fu la sintesi di quello che ti ho detto prima: piccole macchine da guerra, carri armati di cartone e un esercito di carrettini contenenti ciascuno una declinazione della parola “single”. A parete, grandi caratteri acquerellati a formare l’enunciato “vario son da me stesso”, ormai mia cifra personale e che dal 2007 è anche il nome del mio “journal”, blog se vuoi, sul web. Era il mio manifesto.
In quegli anni mi sentivo “sismografo”, ed avevo anche un po’ di “mercato”.
I tuoi lavori, contrassegnati da riflessioni materiche legate all’architettura, lasciano trasparire la necessità di usare luoghi, spazi e volumi per comunicare, per esprimere la tua arte; in “Citycolor”, la tua ultima personale del 2010, si aggiunge un’esplosione di colore che esprime, beffarda, un’ironica “leggerezza”.
L’architettura mi accompagnerà per tutta la vita. Non sono architetto, non ho concluso gli studi di architettura, e credo di essere un paradosso perché la insegno al Liceo da 36 anni senza una laurea. Altre normative, alla fine degli anni Settanta… Sono un dilettante, un autodidatta, ed il problema del dilettante è che deve studiare continuamente, un po’ come l’eroe greco che deve dimostrare sempre, ogni volta, il suo valore, deve ricominciare ogni volta daccapo mentre chi ha gli studi a posto si può “rilassare”. Il dilettante è fastidioso come puoi immaginare. Il mio è un approccio all’architettura dilettantistico, e non dilettantesco. Sono appassionato di storia dell’architettura del Novecento e di quella contemporanea. L’architettura è presente nel mio lavoro sia nell’aspetto installativo, con le inevitabili letture ed interazioni spaziali, che nell’opera pittorica. La mia ultima mostra personale a Rimini, nella Galleria percorsi Arte Contemporanea nell’ottobre del 2010, si intitolava per l’appunto “Citycolor”. Sono immagini di città, risolte tridimensionalmente, a volte costruite con spilli per entomologia. C’è molto cromatismo nelle mie ultime cose. Da anni sono passato dalla “costruzione del dolore” alla “ricostruzione del colore”, come auspicava per me lo scomparso Giorgio Gallizio. Con il colore ho riscoperto la “leggerezza”, che, per attuarsi – utilizzando una metafora architettonica – ha bisogno di “stabilità”; parola da aggiungere a quelle di Italo Calvino nelle sue Lezioni americane.
Sì, hai ragione Antonio, «la leggerezza […] si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso» (Calvino): grazie per avermi concesso questa “preziosa intervista”.
.
Febbraio 2011. Pubblicato su “Trovacasa”, Ravenna
.
variosondamestesso antonio marchetti
Marzo 16th, 2010 § § permalink
.
"Nervous system", Galleria Cesare Manzo
Alberto Boatto
“Nervous System”
Successive cultures have been conscientious in indicating the epicentre of human existence, placing it in multiple and ever differentiated parts of the human body, in the solar plexus or in the heart, in the lobes of the brain or in the pneuma, the breath or in the murmur of the lungs. I mean “epicentre” in an eruptive and dynamic sense, like writing about the ” epicentre of a earthquake”.
In this way a detailed topography of the body is configured; as if opening out the topography of a city with is crossroads, its one-way streets and its underground passages.
There is no doubt that what is insistently indicated as the centre today is the nervous system, a very diffused and concentrated order, spreading to the periphery and gathered together at several points. As much as this kind of topography cannot be identified, today as in the past, with an anatomical topography tout court, a play of crossovers and exchanges remains active. In saying “nervous system”, I imagine an anatomical-centre, the brain or the spinal cord – and a band of delicate and vibrant threads that are spread throughout the living body.
The vibration is like that of seaweed or, with greater similarity, the metal wires of a piano, beaten by hammers wrapped, very much to the point, in skin. Placing the epicentre of man in the nervous system means gathering life around its senses and its movements, discovering, revealing, stripping, sectioning, skinning and exposing.
An operation to which any measure of indulgence is foreign, but which belongs to its opposites, bearing the hard and accentuated names of lucidity and cruelty. Antonio Marchetti places us in front of a monumental topography of this completely uncovered, exposed and dispersed universe. Closed fists, with the thumb fixed firmly to the index finger, that move between hyper-realism and the spectral, holding out and stretching long black rags. Just as mankind’s nerves are stretched and distorted by the violence of reality, its pressures and stimuli. Or how a painter spreads the brushwork and strokes of his spatula. Today I feel like a limp rag, is not said by a character out of Beckett, but a commonplace of everyday life. But from this extremely miserable and self-pitying psychology, Marchetti has extracted a very objective blow-up. He has created a monument out of a metaphor around the obscure reactions of the nerves.
The vivisection is conducted between the physical claims of the material and the abstract chromatic temptations present in the clear and dissonant relationship between black and white. The “lines of force” that draw a great temporal arc in the development of modern art, have been transformed into nerves, fibres, tensions and spasms. And the elegance that, in spite of the wounds and gaps, enclose this widespread ache, is the sign that lucidity constitutes the secret thrust of Antonio Marchetti’s nervous and creative system.
Alberto Boatto
“Sistema Nervoso”
Successivamente, le diverse culture hanno avuto cura di indicare l’epicentro dell’esistenza dell’uomo, collocandolo in luoghi molteplici e sempre differenti del corpo, nel plesso solare o nel cuore, nei lobi del cervello oppure nel pneuma, nel respiro, nel soffio polmonare. Scrivo “epicentro”nel senso eruttivo e dinamico come se scrivessi “epicentro di un terremoto”.
Si configura in tal modo una dettagliata topografia corporale, come si slarga la topografia di una città con i suoi incroci, i suoi vicoli ciechi e i suoi passaggi sotterranei.
Oggi non c’è dubbio, ciò che ci viene insistentemente indicato come il centro è il sistema nervoso, un ordinamento assieme diffuso e concentrato, disperso sino alla periferia e raccolto in più punti. Per quanto una topografia di questo tipo, significativa ed immaginaria, non possa identificarsi, oggi come nel passato, con una topografia anatomica tout court, rimane attivo fra i due un gioco di trapassi e di scambi.
Dicendo “sistema nervoso” mi immagino un centro-anatomicamente, il cervello o il midollo spinale-e un fascio di fili delicati e vibranti che si diramano in tutte le parti di un organismo animato. La vibrazione è quella delle erbe del mare o, con maggiore verosimiglianza, delle corde metalliche del pianoforte tempestate dai martelletti fasciati, molto a proposito, di pelle. Collocare l’epicentro dell’uomo nel sistema nervoso vuol dire raccogliere la vita attorno a i suoi sensi e ai suoi moti, scoprire, mettere a nudo, scarnificare, sezionare, scuoiare, esporre.
Un’operazione a cui è ignota ogni misura d’indulgenza, ma a cui appartengono i suoi opposti che recano nomi duri e accentati:i nomi di lucidità e di crudeltà. Di questo disperso universo, tutto scoperto ed esposto, Antonio Marchetti ci pone davanti una topografia monumentale. Pugni contratti, col pollice ben saldato all’indice, che si muovono fra l’iperrealismo e lo spettrale, tendono e stirano lunghi stracci neri. Proprio come i nervi dell’uomo vengono stirati e torti dalla violenza della realtà, nelle sue pressioni e nei suoi stimoli. O come un pittore stende la sua pennellata e i suoi colpi di spatola. Oggi mi sento uno straccio, non è una battuta di un personaggio di Beckett, bensì un luogo comune di ogni giorno. Ma da questo miserabilismo psicologico e autocompassionevole Marchetti ha estratto una gigantografia molto oggettiva:ha monumentalizzato una metafora attorno alle oscure reazioni dei nervi.
La vivisezione viene condotta tra il richiamo fisico della materia e l’astratta tentazione cromatica presenti nel rapporto nitido e dissonante del bianco e del nero. Le “linee di forza”, che disegnano un grande arco temporale nel percorso dell’arte moderna, si sono trasformate in nervature, in fibre, in tensioni, in spasmi. E l’eleganza che, malgrado le ferite e i vuoti, avvolge questo crampo diffuso, è il segno che la lucidità costituisce la spinta segreta del sistema nervoso e creativo di Antonio Marchetti.
Oratorio di San Sebastiano, Forlì
Virginia Cardi
Construction of Pain (text for the catalogue of the exhibition “Construction of Pain”, Ravenna Art Gallery, Santa Maria delle Croci, 1996)
Entering into the merits of Antonio Marchetti’s research, and in particular the present, leads me to add an initial consideration about the author: a difficult artist who needs to be understood in terms of the long development he has undergone and for greater attention to his matured experience and commitment to a constantly sustained coherence. Construction of Pain, pursuing meanings to which the exhibition is anchored, is a lasting commitment and a challenge that these dark times render even more deserving, aimed at an ultimate and even necessary resistance.
Pain is an indescribable experience. Marchetti’s works make the bonds, the points of erosion and the strains to which our existence is subjected, appear in a context of allusions. He entrusts this metaphor to potent presences and signs that scrutinise space with their decisive and clean forms. The laceration, the wound, like the recurrent presence of sharp pain, were already for some time the terms of that personal grammar, a pursued inspirational motive. Even the Nervous Tension work, created a year ago and part of a trilogy, was in some way already intuited in previous works. In particular, Double Bind: two faces, created in white marble, in profile, pulling at a flame-red silk drape with their mouths. Marchetti’s research, even in its variety of expressive means, is coherent and carries the weight of a choice already present at his Pescara debut in the Seventies. Faithful to his youthful love of Nordic expressionism, whose contrasting tones and pure colours he had assumed from the start, Marchetti privileges pitiless spikes and the leap of signs that have, since then, already established his extremely recognisable style. Frequenting the Lucrezia Di Domizio and Mario Pieroni Galleries in Pescara during those years, on the other hand, was a moment of formation. In that extraordinary accumulation of material and conceptual experiences, new inspirations were born. The masters to whom he looked were, without doubt, Beuys, Pistoletti and Kounellis.
The basic ideas to which he linked himself are, in part, theoretical: an ideological art aimed at profoundly re-discussing the human and the social but within a poetic full of vitality, in which elegance and play, even in experimentation, remain supporting figures. As background, therefore, a certain expressionist avant-garde, Duchampian suggestions and the crucial elements of the aesthetics of the Seventies. Not less characterising, his reading: Bataille, Junger and Cioran, difficult, contradictory authors, some of which became the point of departure of a debate that Marchetti gave voice to during the direction of the Stilo review, an art album of unpublished work and conversations.
All this can be found again today, in a phase of maturity and maintenance of elaborated experience and in an able and knowledgeable ability to articulate languages. But, returning to the exhibition, and taking into examination these works that are entitled Pesanervi (Nerve Weights), where if, on one hand, the warm breath of Artaud leads the artist to reflect once more on that tragic pain machine that is the body, constantly present for some time in his research, and aimed at interweaving epidermis, cracks and veining to discover points of resistance; on the other hand, the memory of the Duchampian mechanical device, which has also inspired Marchetti in the past. Celibate machine the former, single machine the latter, wanting to join to the present, some of the experiences of the second half of the Eighties, that had identified an original range of expressions in the idea of the Single. So, the Single, a dense and allusive term of autonomy, a certain radical theme, at the same time pure form and lost object, crossed by a healthy and a slightly cruel narcissism, now opens the door to a more articulated composition.
The idea of construction in space, of architecture, is created by thinking about the work as an original project. Constructing is a committed action, because it strips us, it makes us come out into the open; and in this it is rooted to a fundamental experience: pain. Understood as an expanding, meta-historical, but also immediate, acceptance. The work opens in an existential space and pain becomes the central moment of consciousness of reality. In accepting this condition, the cardinal idea in contemporary thought, one might think, disenchanted, of the loss of construction. The Heideggerian theme of the discarded being and the extraordinary image of the Angelus Novus, where Benjamin sees in the fall the chance of redemption, are the guiding ideas of this exhibition. On the other hand, Marchetti has elaborated these themes and made them his own, by also studying Hebrew mysticism. But the artist seem to want to tell us that pain is also something else, the proof of our ability to feel, of being alive.
Junger wrote: The flowers that grow in the cracks of death do not fade in our eyes.
Oratorio di San Sebastiano, Forlì
Virginia Cardi
“Costruzione del dolore”
(testo per il catalogo della mostra “Costruzione del dolore”, Pinacoteca di Ravenna, Santa Maria delle Croci, 1996)
Entrare nel merito della ricerca di Antonio Marchetti, in particolare di quella attuale, mi induce ad una considerazione iniziale sull’autore:un artista difficile, che ha bisogno di essere inteso nel lungo percorso che ha compiuto e restituito ad una attenzione più approfondita, per le esperienze maturate e per l’impegno di una coerenza sempre sostenuta. Costruzione del dolore, inseguendo dei significati a cui la mostra si àncora, è un impegno alla durata, é una sfida, che questi tempi bui rendono più meritevoli, tesa ad una resistenza ultimativa e pur necessaria.
Il dolore è un’esperienza indicibile. L’opera di Marchetti fa apparire, in una trama di allusioni, i crinali, i punti di erosione, gli strappi, cui è sottoposta la nostra esistenza;affida questa metafora a presenze e segni forti, che scandiscono lo spazio con le loro forme decise e pulite. La lacerazione, la ferita, come la presenza ricorrente della punta erano già da tempo i termini di una grammatica personale dell’artista, un motivo ispiratore perseguito. Anche il lavoro Tensione Nervosa, realizzato un anno fa e parte di una trilogia, era in qualche modo già intuito in opere precedenti;in particolare ricordo Doppio Legame:due volti, realizzato in marmo bianco, di profilo, tiravano con la bocca un drappo di seta rosso fuoco. La ricerca di Marchetti, pur nella sua varietà di mezzi espressivi, é coerente e porta il peso di scelte già presenti fin dai suoi esordi pescaresi negli anni settanta. Fedele ad un innamoramento giovanile per l’espressionismo nordico, di cui assume, fin dall’inizio i toni contrastati, i colori puri, Marchetti predilige le spigolature impietose, le impennate del segno che fissano già da allora uno stile riconoscibilissimo. Momento di formazione furono, d’altronde, sempre in quegli anni le frequentazioni pescaresi nelle gallerie di Lucrezia Di Domizio e di Mario Pieroni. Nascono in quella straordinaria congerie di esperienze materiche e concettuali nuove ispirazioni. I maestri a cui guardare, non vi é dubbio, sono Beuys, Pistoletto, Kounellis.
Le idee di fondo a cui legarsi sono da una parte teoriche:un’arte ideologica, tesa a ridiscutere in modo profondo l’umano e il sociale ma all’interno di poetiche piene di vitalismo, in cui l’eleganza e il gioco, pur nella sperimentazione, rimangono una cifra portante. Da retroterra, dunque, una certa avanguardia espressionista, suggestioni duchampiane e i punti cruciali dell’estetica degli anni settanta. Non meno caratterizzate sono le letture:Bataille, Junger, Cioran, autori difficili, contraddittori;alcuni dei quali divengono il momento di partenza di un dibattito che Marchetti articola nel corso della direzione della rivista Stilo, album d’arte di inediti e di conversazioni.
Tutto questo si ritrova oggi; in una fase di maturità e di tenuta delle esperienze elaborate, in una abile e consapevole capacità di articolare i linguaggi. Ma torniamo alla mostra e prendiamo in esame quelle opere che prendono il titolo Pesanervi. Dove se da un lato il fiato caldo di Artaud riconduce l’artista a riflettere su quella tragica macchina del dolore che é il corpo, molto presente da tempo nella sua ricerca, tutta volta a intessere epidermidi, crepe, venature, a individuare punti di resistenza;dall’altro é anche molto riconoscibile la memoria duchampiana del congegno meccanico, a cui Marchetti si é ispirato anche nel passato. Macchina celibe, la prima, macchina single la seconda, volendo saldare alle attuali alcune delle esperienze della seconda parte degli anni ottanta, che avevano individuato nell’idea del Single una originale gamma di espressioni. Dunque, il Single, termine denso e allusivo di autonomia, una certa radicalità, al contempo forma pura, oggetto spaesato, attraversato da un sano e un po’ crudele narcisismo, ora apre le porte ad un comporre più articolato.
L’idea di costruzione dello spazio, di architettura nasce da un pensare all’opera come progetto originario. Costruire é un’azione impegnativa, poiché ci denuda, ci fa uscire allo scoperto;ed in questo essa si radica ad un fondamento:il dolore. Inteso in un’accezione dilatabile, metastorica, ma anche attuale. L’opera apre ad uno spazio esistenziale e il dolore come momento di conoscenza della realtà diventa centrale. Nell’accettazione di questa condizione, idea cardine nel pensiero della contemporaneità, si può pensare, nel disincanto, nella perdita alla costruzione. Il tema heideggeriano dell’essere gettato, l’immagine di straordinaria potenza dell’Angelus Novus, dove Benjamin fissava nella caduta la chance di un riscatto, sono idee conduttrici di questa mostra. D’altro canto Marchetti ha elaborato e fatto suoi questi temi, anche attraverso lo studio della mistica ebraica. Ma il dolore é anche qualche cosa d’altro, pare volerci indicare l’artista, é anche la prova del nostro sentire, del nostro essere vivi.
Scrive Jünger: I fiori che crescono sulle crepe della morte non impallidiscono ai nostri occhi.
Cervia, Magazzini del sale. Photo Marco Minoliti
Giacinto Di Pietrantonio ad Antonio Marchetti
(courtesy Cesare Manzo. Testo per il catalogo della mostra “Pesanervi”, Pescara, Galleria Cesare Manzo,1994)
Caro Antonio,
Siamo arrivati ad un altro appuntamento del nostro pluriennale rapporto in cui ci scambiamo idee, osservazioni, riflessioni, immagini, forme senza formalismi, momenti in cui accettiamo un confronto e ci mettiamo in discussione sempre alla ricerca di quello che chiamiamo un nuovo mattino. Ma, mai come ora questo mattino sembra essere così minacciato, assediato dalla realtà, dagli ultimi avvenimenti e non solo italiani, dalle tensioni che sconvolgono il mondo, lo cambiano, lo mutano, lo trasformano nel bene e nel male.
Una volta noi sapevamo, o meglio, credevamo di sapere dove questa separazione, questa ferita si apriva, ora non ne siamo più sicuri e le tensioni che animano il mondo non sono quelle collettive, ma anche quelle che ognuno di noi vive quotidianamente, ciò che appunta ogni giorno nel diario dell’esistenza. Non lo sappiamo, perchè sono certo scomparse le certezze, ma anche i simboli che le rappresentavano, ad esempio gli angeli e i diavoli, figure, immagini che al di là del valore davano una forma all’invisibilità dell’immaginario.
Ravenna, Santa Maria delle Croci
Perché oggi non siamo più capaci di queste immaginazioni?
Pensa che bello sarebbe se riuscissimo ancora a vederli, a come sarebbe figurativamente trasfigurata la realtà se fossimo capaci di vedere questi personaggi con grandi ali bianche, capelli dorati e corpi lucenti e gli altri con ali rosse e corpi verdi saltellare tra di noi, l’immagine delle tensioni della realtà ne uscirebbe rafforzata dalla potenza della visione anziché dalla omologazione della televisione. Con questo, difatti, abbiamo rinunciato a ricercare l’immortalità dell’anima e del corpo, accontentandoci di allungare l’età media della vita, abbiamo rinunciato a vivere mille, duemila, ventimila anni e più.
Ma perché tutto questo?
Perché ci siamo sempre più modernamente consegnati alla cronaca, perché abbiamo sempre più dato valore al presente, perché abbiamo rinunciato al passato e al futuro, alla notte e al nuovo mattino in favore del giorno. Noi abbiamo bisogno di miti, leggende, epica che l’arte forse ci può ancora dare ed è per questo che uno sparuto gruppo di persone, artisti, critici, galleristi, etc. resistono ancora nel darsi da fare perché l’arte sopravviva, perché abbia ancora una espressione, una lettura, una casa. E’ per questo che la riserva dell’arte resiste allo stesso modo degli eretici medievali che a tutti i costi tenevano duro nel conservare una visione del mondo diversa seppur minoritaria. Sì, non va nascosto che siamo una minoranza, ma va anche detto che in questa minoranza batte un cuore, il cuore segreto del mondo. Difatti, è di questi giorni il riacuirsi del dibattito intorno alla necessità dell’opera d’arte e dell’arte più in generale, ma in effetti è la questione cruciale di questo secolo, da quando si è andata sempre più marginalizzando, da quando si è mostrata sempre più lontana dalla realtà, perchè non più simbolica di questa e del potere che la rappresenta.
Ma la domanda ulteriore è: siamo sicuri che l’arte è qui dove la cerchiamo, o non sia migrata da un’altra parte?
La risposta è più facile di quanto sembri, perchè l’arte è lì dove ci indicano gli artisti.
Allora queste tue opere, le due che esponi e le altre che tieni nel segreto dello studio sono portatrici di tutto questo e in che modo?
Semplicemente con la loro tensione formale. Mi pare, infatti, che in esse, nei pugni che tirano gli stracci occupando la parete e nel grande cono che ingombra lo spazio, il comun denominatore, se si può ancora usare questa parola in un periodo di particolarismi, è proprio l’espressione dell’intensità della tensione, dell’energia che passa in un’opera. Difatti, non le mani, ma i pugni chiusi tutti diversi esprimono una concentrazione anatomica della potenza di un corpo avvolto, la trasformazione di un membro del corpo da un elemento di pace, la mano aperta, ad uno di guerra, il pugno; di un’anatomia che passa dalla quiete al moto. Ma non potendo più distinguere tra il bene e il male, un pugno che tiene uno straccio è anche una mano chiusa che si aggrappa e che tirando cerca di salvare qualcosa o qualcuno, come è testimoniato da una serie di mani-chiuse-pugni che si stringono formando una rete umana di solidarietà che segna il muro e crea immagine. Allo stesso modo il cono che ingombra, che occupa, che ostruisce lo spazio, ci angoscia, sbarrandoci la strada, ma dà anche una nuova configurazione, crea un nuovo confine, ci prospetta un diverso uso dello spazio che non avevamo finora notato. Ecco, a questo serve l’arte: a metterci a tu per tu con delle nuove visioni in alternativa alle televisioni.
Un affettuoso saluto.
Giacinto
"Pesanervi"
Vecchia pescheria, Pesaro